Dal 1895 sono stati più gli uomini rispetto alle donne a girare film, e anche in Italia il binomio “donna e regista” stenta a realizzarsi. Su 100 solo sette sono donne. Una di queste “sette su cento” è Wilma Labate, tra le registe più impegnate negli ultimi vent’anni che mi concede con grande disponibilità un po’ del suo tempo.
Pensando alle considerazioni fatte prima, perché per una donna è difficile lavorare nel mondo della “settima arte”? Lei come ha iniziato?
Per una donna è difficile lavorare in qualsiasi ambiente, le donne devono produrre e lottare il doppio per ritagliarsi uno spazio e nel cinema è ancora più complicato. Durante tutto il novecento, il cinema è stato considerato un mestiere dai requisiti fisici notevoli, ultimamente di questo si parla meno ma la barriera più alta che divide i generi è quella del talento. Come se fosse solo una prerogativa maschile.
Facevo l’università, fui chiamata da un gruppo di documentaristi, dovevo fare ricerche, stendere una scaletta di testi di linguistica: “Che palle – pensavo – Loro fanno i film, io m’incollo pile di libri”. Poi un giorno squilla il telefono all’alba: “Vieni con noi, si gira”.
Il pullman entra nel giardino dell’ospedale psichiatrico di Roma Santa Maria della Pietà, percorre un lungo viale alberato fino al padiglione n.17. Salgono a bordo gli ospiti del 17, malati di mente che non uscivano di lì da venti, trent’anni. Sembravano tutti vecchi ma quasi nessuno lo era. Silenziosi e spaventati, si muovevano con prudenza erano goffi… Guardavano fuori dal finestrino, il regista, gli operatori, il fonico e me, tutti. C’era il loro medico che li coccolava un poco e anche noi, più spaventati di loro, ma facevamo finta di niente. Erano gli anni ’70, si aprivano i manicomi si era molto ideologici, però i matti facevano ancora paura.
Il pullman sfreccia sull’autostrada, visita allo Zoo-Safari, si cercava di aprire anche gli zoo, le scimmie si aggrappano ai finestrini qualcuno grida, sono stanchi ma bisogna divertirsi andare avanti e girare, è la prima uscita nel mondo dopo tanti anni d’isolamento. Un elefante ci blocca, siamo tutti stupefatti, siamo solo a Fiumicino, io distribuisco aranciate, mi tremano le mani. Il viaggio continua, ecco una spiaggia grigia, il mare è calmo, scendiamo tutti. Loro guardano il mare attoniti. Qualcuno si avvicina all’acqua, entra e lascia un mucchietto di vestiti sulla spiaggia, arrivano gli altri, si schizzano, ridono, bocche sdentate, guizzi di felicità negli occhi. Il medico guarda preoccupato ma contento, un operatore sta in acqua, la macchina da presa in mano e cerca di proteggerla dagli schizzi, l’altro ha piantato il cavalletto nella sabbia e inquadra le facce. Avevo le scarpe piene di sabbia. Così ho cominciato questo mestiere.
Il suo primo lungometraggio è Ambrogio (1992), una storia al femminile ambientata a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, ma è col successivo La mia generazione (1996) che riesce a raggiungere il grande pubblico. La pellicola, interpretata da Claudio Amendola, Silvio Orlando, Francesca Neri, Stefano Accorsi, fu scelta per rappresentare l’Italia agli Oscar esattamente vent’anni dopo Lina Wertmüller e il suo Pasqualino Settebellezze (1976), e ottenne nomination e premi tra David di Donatello, Nastro d’argento e Grolla d’oro. Nel film, ambientato nel 1982, parla del terrorismo degli anni settanta con una visione posteriori. Come ha vissuto quella stagione?
Era cominciata bene quella stagione e di questo non si parla mai, dell’inizio folgorante. Andavo al cinema: Bergman, Bunuel la nouvelle vague il free cinema Sergio Leone, e dopo restavo a discutere dei film fino all’alba. Roma era piena di rassegne: Welles, Lang tutto, anche all’università. Poi è calato il buio, ma non in sala, sul paese, e i cinema hanno cominciato a chiudere. La mia generazione è un film western, con uno sceriffo un bandito una diligenza e un duello finale. Ho scelto di raccontare una bella storia lasciando a casa “il tema” che con il cinema fa a cazzotti.
Nel 2001 ha realizzato Domenica, ancora con Claudio Amendola e la debuttante Domenica Giuliano, una nuova storia al femminile. Il suo essere donna come ha orientato i suoi film?
Ho cercato di mettere in scena l’orfanitudine che ogni donna si porta dentro, e la malinconia. Ma quando ho incontrato Domenica, la piccola protagonista, ho scoperto di poter raccontare anche la capacità di resistenza che le donne hanno, a tutte le età, una forza concreta. Come Napoli che sembra morire ogni momento e che poi, sempre, si rialza.
Ha dichiarato che “Il cinema non deve essere ideologia né teoria. Deve essere presenza”. Questa convinzione l’ha portata a realizzare numerosi documentari, anche collettivi, come Un altro mondo è possibile (2001) e Lettere dalla Palestina (2003) diretti, tra gli altri, insieme a Mario Monicelli, Ettore Scola e Citto Maselli. Secondo lei perché i documentari difficilmente approdano nelle sale? Perché vengono quasi “cancellati”? E’ successo anche al suo Maledetta mia (2003) che raccoglie una serie di interviste a giovani anarchici, artisti e militanti politici; venne presentato a Venezia nel 2003, ma non uscì mai nelle sale.
Anche oggi che di documentari se ne producono molti di più, in sala hanno vita breve, ma non tutti e questo è un sintomo buono. Rosi, Marcello, Minervini, solo per citare i più famosi, hanno fatto film bellissimi che trasgrediscono le regole del mercato, sono conosciuti all’estero e sono invitati e premiati a festival importanti. Qualcosa sta cambiando.
Nel 2005 ha scritto con Fausto Bertinotti, allora Segretario nazionale di Rifondazione Comunista, il libro “Il ragazzo con la maglietta a strisce”. Che rapporto ha oggi con la sinistra nel nostro Paese?
Conflittuale.
Uno dei suoi lavori più noti è Signorinaeffe (2007) che è anche uno dei pochi film ambientanti in una fabbrica. Come era capitato decenni prima a La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri, suscitò polemiche soprattutto a sinistra. Se il film di Petri evitò ogni mitizzazione della condizione operaia, la sua pellicola ha mischiato, per alcuni colpevolmente, il “sacro” della lotta degli operai col “profano” della storia d’amore. A mio parere, ha raccontato la perdita d’identità del proletariato immigrato dal sud Italia sedotto dal mito del benessere borghese (in sintonia col film di Petri in cui il personaggio interpretato da Mariangela Melato sogna di avere una pelliccia). Il film è ambientato nella FIAT del 1980, nella FIAT della marcia dei quarantamila. Furio Colombo scrisse “Io non so quanto sia consapevole la bravissima Wilma Labate di avere fatto il ritratto di un’epoca”. Ne era davvero consapevole? Ha visto in quella vicenda la fine della lotta di classe operaia o peggio, la fine degli operai come classe?
Con la marcia dei quarantamila è finito un decennio di lotte, forse il più significativo del ‘900 ma ancora una volta mi sono concentrata sul racconto della perdita d’identità dei due protagonisti, lasciando sullo sfondo gli eventi. Era un terreno minato quello di Signorinaeffe, molto difficile da percorrere e nessuno mi ha fatto sconti. E’ stato molto doloroso.
Nel 2014 al Torino Film Festival ha presentato il suo ultimo lavoro Qualcosa di noi (2014), un documentario in cui mette a confronto Jana, una donna che liberamente e consapevolmente si prostituisce per vivere, e dodici allievi della scuola bolognese di scrittura “Bottega Finzioni”. Come ha conosciuto Jana? E perché questa storia tra “corpo e denaro”?
E’ stato abbastanza semplice conoscere Jana, ho chiesto a Pia Covre, la sindacalista delle lucciole. E’ stato più complicato sceglierla tra le altre e decidere di farle condurre il gioco con gli allievi. Anche se si dimostravano disponibili, erano diffidenti. Ma lei è riuscita a conquistarli, almeno una parte e qualcuno ha avuto il coraggio di mettersi a nudo. La riflessione su corpo e danaro è diventata parte del racconto. Il corpo di Jana è un’azienda e dunque produce denaro.
Studia il cinema degli altri, le piace confrontarsi con i cineasti più giovani. Dove l’ha condotta la sua curiosità?
C’è un sorprendente sintomo di cambiamento di stile e di sguardo, anche femminile. Basta guardare i film di Alice Rohrwacher. Il mondo che ci racconta è stupefacente e il cinema dovrebbe sempre essere così, pieno di sorprese.
Qual è il o la regista che più l’ha ispirata?
E’ molto difficile rispondere brevemente a questa domanda, posso dire in modo sintetico che vorrei poter raccontare una storia con sguardo sensuale, come faceva Truffaut.
Ha in mente qualche nuova storia? Nella rubrica “Questo libro è proprio un film” ha scritto “mi auguro che qualcuno accolga il mio desiderio di comporre un film documentario tratto da Il giudice delle donne”. Il libro di Maria Rosa Cutrufelli parla di una lotta al femminile, argomento spesso al centro dei suoi lavori. “Il giudice delle donne” potrebbe essere il suo prossimo film o la legge Franceschini ha reso fare cinema di qualità più difficile che andare sulla luna?
“Il giudice delle donne” è un bel romanzo ma troppo costoso per un film. Almeno per me. Il cinema di qualità non morirà perché chi ha qualcosa da dire, ci sarà sempre. Il discorso è complesso: oggi in Italia un autore come Kubrik potrebbe avere spazio? Sono sicura di sì, ma non per l’intelligenza e la lungimiranza del mercato, per la potenza del talento che poi, alla fine, riesce a superare ogni barriera. Sono tempi duri e le regole sono sempre più rigide però qualcuno che cerca di sovvertirle c’è.
Il cinema è passato dall’artigianato al marketing o c’è ancora spazio per del cinema di qualità?
Bisognerebbe produrre meno commedie e ascoltare quello che si muove intorno a noi ma non si può pretendere che il mercato sia curioso, quello pensa solo agli affari. Ci si deve ricavare lo spazio tra le maglie della logica produttiva, scansare la retorica, essere elastici anche nei confronti dei generi, lavorare sulla forma per metterla al servizio di ciò che ognuno di noi sente di voler raccontare a ogni costo.
redazionale