“L’uomo che inventò Hollywood” oppure “500 film per trasformare il cinema” o ancora “La storia scritta in un baleno”, anche “L’intolleranza del Ku Klux Klan” oppure “Il padre del cinema moderno”… tutti questi sarebbero stati titoli perfetti per descrivere il protagonista della nostra storia: David Wark Griffith.
La portata e la grandezza delle innovazioni e delle intuizioni di Griffith è comprensibile solo ampliando ed analizzando lo “stato dell’arte” cinematografica al tempo in America ed in Europa.
All’inizio del secolo scorso il cinema muoveva i primi passi e l’epicentro creativo era sicuramente l’Europa. In Francia le proiezioni dei fratelli Auguste e Louis Lumière avevano solo pochi anni e l’eclettico Georges Méliès sperimentava nuove tecniche, presentava delle trame nei filmati e non solo brevi scene di vita quotidiana, inventava il cinema fantastico e di fantascienza. Se non ci fosse stato Méliès, se non ci fossero stati i suoi Viaggio nella Luna (1902) e Viaggio attraverso l’impossibile (1904), non ci sarebbe stata nemmeno la saga di Star Wars che ha riempito i cinema anche nelle ultime settimane.
La Francia, prima nazione insieme ai paesi nordici ad investire nel cinema, puntò culturalmente in quella che sarebbe diventata la “settima arte” e creò l’industria cinematografica. Non è un caso che, dopo i fratelli Lumière e Georges Méliès, anche la prima regista donna della storia fu francese. Alice Guy-Blaché realizzò, infatti, nel 1896 il suo primo film La Fée aux choux seguita a breve distanza dall’italiana Elvira Coda Notari. In Gran Bretagna la cosiddetta “Scuola di Brighton” innovò con la sovrimpressione The Corsican Brothers (1898) e il primo piano Sick Kitten (1903) entrambi di George Albert Smith.
Negli Stati Uniti, dopo le sperimentazioni di Thomas Alva Edison e la sua “Black Maria” (un particolare palcoscenico di posa con le pareti dipinte di nero che sfruttava la luce esterna e in cui venne realizzato quello che si considera il primo film statunitense The kiss del 1896 di William Heise), il cinema prese consistenza con il lavoro di Edwin Stanton Porter. Porter, ex marinario, con Life of an American Fireman (1903) mischiò per la prima volta sogno e realtà e usò il montaggio come mai era stato fatto (in sintesi mostrò un salvataggio alternando le immagini del “pompiere” a quelle della donna e dei figli intrappolati nella casa in fiamme). Nel successivo The Great Train Robbery (1903), conosciuto in Italia col titolo “Assalto al treno” e celebre per la scena finale in cui il capo dei banditi punta la pistola contro la macchina da presa, Porter inventò il western e determinò un cambio di rotta: se prima i film di importazione europea, come Le Film d’Art francesi incentrati su rappresentazioni storiche, mitologiche o adattamenti teatrali erano in assoluto i più visti negli USA, questo nuovo genere ne scalfì la supremazia.
Sulla spinta di questi successi si moltiplicarono i cosiddetti Nickelodeon, luoghi dedicati al cinema dove per pochi soldi, 5 centesimi (un “nichelino”), si poteva assistere a proiezioni perlopiù rivolte ad impiegati ed operai che non potevano permettersi il ben più costoso teatro, ma di fatto vietati alle minoranze etniche. Ispanici, asiatici e italiani si organizzarono per conto proprio mentre gli afroamericani scoprirono il cinema nelle chiese o in locali allestiti per i “colored”. Ma il cinema negli States continuò ad essere poco più di un “fenomeno da baraccone”. Se in Europa, come detto, lavoravano le prime registe, negli USA per una donna immischiarsi nel cinema era considerato fino al 1907 un’attività appena più dignitosa della prostituzione.
Nonostante questi sviluppi, gli spettatori erano ancora affascinati dalla nuova invenzione in sé e per sé più che dalle storie raccontate o dalle novità tecniche, è il “cinema delle attrazioni”. Enoch J. Rector, nel film-documentario The Corbett-Fitzsimmons Fight (1897), “allargò gli orizzonti del cinema” non utilizzando una pellicola da 35 mm come di consueto, bensì un negativo largo 63 mm inventando così il formato panoramico che oggi è la norma, ma che entrò in commercio solo nel 1953, 56 anni dopo la “scoperta” di Rector. Dall’Australia arrivò, invece, il primo lungometraggio della storia con The Story of the Kelly Gang (1906) di Charles Tait, ma per diversi anni a seguire la durata dei film rimase al massimo di 15-20 minuti (1 o 2 bobine). Tutto è ancora “occasionale”, “episodico”.
Il cinema era considerato come una moda passeggera, ma le cose stavano per cambiare. Nel 1908 debuttò dietro la macchina da presa colui che cambiò per sempre il cinema. Il 14 luglio di quell’anno uscì, infatti, The Adventures of Dollie di David Wark Griffith.
Griffith, figlio di un eroe della guerra di secessione americana, dopo aver operato nel teatro approdò al cinema. All’American Mutoscope and Biograph Company lavorò prima come attore, senza grande successo, poi come regista, cambiando per sempre la storia. Fino ad allora, infatti, il ruolo del regista aveva avuto uno scarso significato: non era l’autore del film come lo intendiamo oggi, al punto che spesso, se non sempre, regista e cameraman erano la stessa persona. Griffith, anche grazie al crescente interesse per i film dotati di una struttura narrativa, ridisegnò questo ruolo. Ad accorgersi, non senza difficoltà, del nuovo taglio fu il fotografo e suo collaboratore Billy Bitzer. Questa nuova visione del ruolo del regista salvò la Biograph, che non navigava certo in acque calme, al punto che si passò dalla consueta distribuzione di 15 copie a film alle 25 di The Adventures of Dollie che raccontava la storia del rapimento per vendetta di una bambina. Non solo. Con il primo film di Griffith si passò definitivamente dal “cinema delle attrazioni” al “cinema narrativo”.
Griffith per la Biograph diresse 465 film, l’ultimo fu Giuditta di Betulia (1914) ispirato ai film storici italiani, applicando quelle innovazioni che prima di allora erano state solo episodiche. Dall’uso del montaggio a quello che potremmo volgarmente chiamare “zoom”, dal primo piano al piano americano passando per l’uso espressivo della luce, la dissolvenza e il montaggio alternato che diverrà il “montaggio alla Griffith”. Con Griffith aumentò la pubblicità e l’interesse per il cinema al punto che il suo Pippa Passes (1909) fu il primo film recensito dal New York Times. Il regista si trovò, tuttavia, sempre più in difficoltà con la lunghezza dei film e sperimentò, non senza problemi, i film a due episodi un po’ più adatti a contenere le sue storie.
Storie che avevano come protagonisti le prime “stelle” del cinema. Dalla prima diva Florence Lawrence a Mack Sennett, in seguito re della commedia con i suoi Keystone Cops, per arrivare alla “fidanzatina d’America” Mary Pickford. Storie che parlavano di amori contrastati, di salvataggi all’ultimo secondo (valorizzati dal montaggio alternato), di contrasti tra la pacata campagna e la caotica città, di avventure uniche. Storie che spesso seguivano gli stereotipi razzisti dell’epoca. In The Adventures of Dollie a rapire la bambina richiamata nel titolo è uno zingaro, nel successivo The Greaser’s Gauntlet (1908) il ladro è cinese e il messicano protagonista è etichettato in senso dispregiativo, in The Fatal Hour (1908) il “cattivo” è uno schiavista cinese mentre in One Touch of Nature (1909) sono due italiani, siciliani nello specifico, a rapire un’orfanella… cosa che dovrebbe far riflettere i razzisti nostrani.
Ma molte storie, molti film affrontarono, con orientamenti e sentimenti diversi, la guerra di secessione. Griffith, come detto, era figlio di un militare sudista ed era originario del Kentucky uno stato di frontiera dove nel 1864 si parteggiava per una fazione o per l’altra sotto lo stesso tetto. Ad inizio Novecento la guerra di secessione, la guerra civile americana, era ancora viva nella memoria degli statunitensi, ogni famiglia ricordava bene le conseguenze economiche e sociali di quella carneficina che aveva visto morire 618.000 persone (per capire la portata giova ricordare che gli Stati Uniti persero 117.000 militari nella Prima guerra mondiale, 292.000 nella Seconda, 58.000 in Vietnam e 4.000 in Iraq).
Si avvicinava il cinquantennale della Guerra civile americana e Griffith, lasciata la Biograph, iniziò a lavorare ad una sorta di film “definitivo” sulla Guerra di secessione. Film sull’argomento ne uscivano a dozzine ogni anno. Tra i più rilevanti da segnalare The Siege of Petersburg (1912) di Kenean Buel, The Drummer of the 8th (1913) e The Battle of Gettysburg (1913) entrambi di Thomas Harper Ince. Quest’ultimo considerato dai contemporanei un film difficilmente eguagliabile. Lo stesso Griffith, come scritto, aveva già realizzato pellicole sulla Guerra civile americana: The Guerrilla (1908), In Old Kentucky (1909), The Honor of His Family (1909), In The border States (1910), The House With Closed Shutters (1910), The Fugitive (1910), His Trust e His Trust Fulfilled (1911) primo film a episodi della storia e unico film di Griffith in cui il protagonista è un uomo di colore, Sword an Hearts (1911), The informer (1912).
Nell’estate del 1914 Griffith iniziò a lavorare ad un soggetto tratto dal romanzo “The Clansman: An Historical Romance of the Ku Klux Klan” di Thomas Dixon Jr. e in parte minore dallo scritto “The Leopard’s Spots” dello stesso autore, un pastore battista dalle idee non certo progressiste. Dopo nove settimane di lavorazione il film fu terminato. Non più un corto o medio metraggio come i precedenti, ma il primo kolossal della storia del cinema. Nella prima riservata proiezione nel Capodanno del 1915 il film aveva il nome del romanzo ovvero “The Clansman“, pochi mesi dopo, sistemati definitivamente montaggio e didascalie, si intitolò Nascita di una nazione (The Birth of a Nation, 1915).
Nel 1860 due famiglie legate da forte amicizia, i nordisti Stoneman e i sudisti Cameron, si trovano sui fronti opposti della Guerra di secessione. Con la vittoria del nord e l’assassinio di Lincoln (episodio non raccontato nel romanzo di Dixon) cresce l’arroganza dei “neri” guidati dal perfido Silas Lynch, l’attore George Siegmann. Il giovane Ben Cameron, interpretato da Henry B. Walthall, dopo aver assistito impotente al suicidio della sorella Flora, Mae Marsh, che scappava dalla violenza di un uomo di colore (Gus, interpretato da Walter Long), e per arginare lo strapotere dei neri, fonda il Ku Klux Klan. Alla fine sposerà l’amata Elsie Stoneman, che ha il volto dell’attrice Lillian Gish un simbolo della filmografia griffithiana.
Il film, oltre tre ore di durata, mischiò abilmente drammi personali e drammi collettivi e “resta una pietra miliare della storia della cinematografia per la maturità dei mezzi espressivi: il montaggio parallelo, l’alternanza di campi lunghissimi e primi piani, l’attenta caratterizzazione dei personaggi e il perfetto controllo degli attori, le grandiose scene di massa, gli effetti luministici” (Mereghetti). Alla realizzazione collaborarono anche Erich von Stroheim e Raoul Walsh, il primo debuttò inoltre come comparsa (l’uomo che cade dal tetto), mentre il secondo interpretò John Wilkes Booth l’assassino di Lincoln.
Il film costò 110mila dollari, cifra esorbitante per l’epoca, ma ne incassò oltre 15 milioni. Facendo debiti raffronti tra la popolazione ed i prezzi di allora con quelli odierni lo si dovrebbe collocare al primo posto nella graduatoria dei più grandi campioni d’incassi di tutti i tempi.
Un successo portato anche, se non soprattutto, dalle polemiche. Il Ku Klux Klan era stato protagonista in negativo in una precedente pellicola di Griffith The Rose of Kentucky (1911), ma in Nascita di una nazione è protagonista in positivo. Nel film, infatti, i neri – per lo più interpretati da bianchi col volto pitturato – vengono rappresentanti come sporchi, violenti, luridi ubriaconi, portatori di disordine e stupri. Solo la formazione del Ku Klux Klan riporta la pace e la serenità consentendo il coronamento del sogno d’amore dei due protagonisti.
Tra il romanzo The Cansman e il film Nascita di una nazione esistevano delle differenze così come tra Dixon e Griffith. Se il pastore battista considerava i neri alla stregua degli animali, il regista “non se la prende con la gente di colore, a suo avviso ingenua e senza volontà; la colpa della guerra non è loro, ma di chi li ha strumentalizzati, di chi crede nel falso vangelo dell’integrazione, di chi si è lasciato irretire dai fautori della mescolanza fra le razze” come scrive il critico Paolo Cherchi Usai.
La rovente polemica innestata dalla National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) fece proibire il film in diverse città degli Stati Uniti, tra queste Los Angeles, Chicago, Denver, Pittsburgh, Saint Louis, Minneapolis, e al fronte, dove militari neri americani combattevano la Prima Guerra Mondiale. Per sbloccare la sua opera Griffith si appellò all’allora Presidente degli USA Woodrow Wilson che, dopo una proiezione privata alla Casa Bianca, sentenziò: “E’ come scrivere la Storia in un baleno. Il mio unico rammarico è che sia tutto così terribilmente vero”. Sulla veridicità di questa affermazione ci sono dubbi, ma il film, con alcune modifiche operate dallo stesso regista, riprese ad essere proiettato ovunque.
La colpa più grave di Griffith e del fedele direttore della fotografia Bizter fu quella di aver provocato il primo grande shock della storia del cinema, innalzando la bandiera del razzismo. Al termine di alcune proiezioni gli spettatori di colore presenti vennero presi a bastonate. A Lafayette, nell’Indiana, un bianco uccise un ragazzo nero dopo la proiezione. Più in generale Nascita di un nazione portò intere generazioni di americani a discriminare le persone in base al colore della loro pelle. Non fu purtroppo un caso che il Ku Klux Klan, dichiarato incostituzionale nel 1882, venne ricostruito da William Simmons nel 1915 proprio sull’onda del grande successo del libro “The Clansman” pubblicato dieci anni prima e della sua spettacolare versione hollywoodiana. Simmons, studiando andamenti di mercato, delineò le caratteristiche del nuovo-vecchio prodotto: stesso odio per i “niggers”, stesso antisemitismo, stesso anticattolicismo, con l’aggiunta, tuttavia, di una forte venatura di antisocialismo e di anticomunismo.
Griffith fu sorpreso dalle reazioni e ancor più dagli scontri. Per il regista il suo non era razzismo, ma una descrizione di “come stavano le cose” all’indomani della Guerra di secessione. In risposta alle critiche scrisse un pamphlet “The Rise and Fall of Free Speech in America” i cui si appellava al diritto di esprimere liberamente le proprie convinzioni politiche. Convinzioni non certo progressiste se pensiamo al fatto che, dopo un viaggio in Italia, dichiarò al New York World (edizione del 9 maggio del 1924) che Mussolini era “un grand’uomo. La gioventù è dalla sua parte. Potrebbe fare grandi cose. Chissà che non sia un nuovo Napoleone, qualcuno che sconvolgerà il mondo. Credo che questo fascismo sia capace di qualsiasi cosa. Non mi dispiacerebbe fare un film sull’eccezionale spirito dei fascisti”.
Grazie agli incassi di Nascita di una nazione, David Wark Griffith fondò con Mack Sennett e Thomas Harper Ince la Triangle Film Corporation. Sennett con il suo ramo, la Keystone, divenne il re delle comiche lanciando il talento inarrivabile di Charlie Chaplin. Ince realizzò in quel periodo il suo capolavoro Civilization (1916) un film pacifista con una vena antitedesca. Ince morirà in circostanze misteriose nel 1924 e l’episodio verrà narrato nel film Hollywood Confidential (2001) di Peter Bogdanovich.
Influenzato dai lungometraggi storici italiani e in particolare dalle scenografie e dai carrelli in movimento del film Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, prima pellicola della storia ad essere proiettata alla Casa Bianca, Griffith iniziò a lavorare ad un film che voleva essere una risposta alle polemiche innescate dal precedente Nascita di una nazione. Ma non poteva accontentarsi di fare un film qualsiasi. Doveva pensare ancora più in grande. Intolerance. La lotta dell’amore attraverso i secoli (1916) nasce come una gigantesca improvvisazione capace di intrecciare storie multiple che rappresentano una condanna di tutte le forme di violenza ed intolleranza. Tutte, beninteso, tranne il razzismo.
Quattro episodi sull’intolleranza dalla storia antica all’età moderna. La caduta di Babilonia (raccontato nel film Good morning Babilonia del 1987 diretto dai fratelli Taviani) descrive la fine della città mediorientale dove le leggi tolleranti e illuminate del Re non reggono all’urto dell’intolleranza e della sete di potere. La Passione di Cristo verte su tre parabole: le nozze di Cana, i Farisei al tempio e la Samaritana. In tutte la dolcezza e la tolleranza di Gesù vengono contrapposte al fanatismo dei Farisei. La notte di San Bartolomeo narra un episodio avvenuto a Parigi nel 1572 quando gli ugonotti vennero brutalmente massacrati dalle truppe della Regina Caterina de Medici. Nell’episodio La madre e la legge, su cui il regista stava già lavorando, racconta l’intolleranza verso l’emancipazione delle donne e i diritti dei lavoratori. Una giovane madre viene privata del figlio, mentre il marito viene accusato ingiustamente di omicidio a seguito di uno sciopero. Ad intervallare le fasi in crescendo delle quattro storie vi è la scena di una madre, interpretata da Lillian Gish, che dondola una culla.
Intolerance (parodiato da Buster Keaton in The Three Ages del 1923 noto in Italia come Senti, amore mio o L’amore attraverso i secoli), un film complesso e dispendioso, 100.000 metri di pellicola impressionata e 5.000 comparse “dal punto di vista linguistico è la sintesi di tutte le invenzioni del regista: narrazione in crescendo, grazie al montaggio parallelo e alternato… uso dei carrelli orizzontali e delle gru; sperimentazioni dello spazio e del tempo” (Mereghetti). I quattro episodi hanno durata diversa. Prendendo per comodità 180 minuti di lunghezza totale del film, la storia moderna è la più lunga con 76 minuti, l’episodio babilonese, dalle sontuose scenografie, dura 72 minuti. Più brevi l’episodio degli ugonotti, 20 minuti, e quello di Cristo solo 11 minuti. Le scene con la culla occupano nell’insieme meno di 2 minuti.
La pellicola uscì nelle sale alla vigilia dell’intervento americano nella Prima guerra mondiale e fu un insuccesso. Questo sia perché durante l’impegno militare il pubblico non condivideva il messaggio pacifista, sia perché il montaggio alternato, che intrecciava le quattro storie, lo rendeva di difficile fruizione per il pubblico dell’epoca. A New York rimase in cartellone per 22 settimane contro gli undici mesi di Nascita di una nazione. Nel 1919 Griffith provò a rieditarlo, tra l’altro aggiungendo i titoli delle singole storie, ma il risultato non cambiò e il film venne rivalutato solo nei decenni seguenti ed inserito tra i migliori 100 film americani di tutti i tempi.
Anche in questo caso intervenne la censura. Inaccettabili le scene della festa a Babilonia, intollerabili le vestali dell’amore che giocano con l’acqua, imbarazzante il gruppo di prostitute in pose lascive. Nudi femminili. Per la censura del 1916 è davvero troppo. Troppo al punto che Griffith dichiarò “Intolerance sarà il mio ultimo film. L’intolleranza di cui sono stato testimone e che ho combattuto prima (con Nascita di una nazione, nda) non consente di investire le enormi fonti di denaro necessarie a fare un film se esso è poi lasciato alla mercè dei capricci o della stupidità di un capitano della polizia”.
Intolerance non fu tuttavia l’ultimo film di Griffith che lasciò altri segni indelebili nella storia del cinema. Nel 1919 fondò insieme a Douglas Fairbanks, Mary Pickford e Charlie Chaplin la United Artists. Dietro la macchina da presa realizzò, tra gli altri, Giglio infranto (1919), Agonia sui ghiacci (1920) e Le due orfanelle (1921). Griffith visse una vita sentimentale tormentata e non ebbe figli. Morì a Los Angeles nel 1948 per un’emorragia cerebrale.
Nel 1953 venne istituito il D. W. Griffith Award negli anni attribuito a Cecil B. DeMille, John Ford, Alfred Hitchcock, John Huston, Ingmar Bergman, Akira Kurosawa, Woody Allen, David Lean e Stanley Kubrick. Poiché le controversie legate al nome di Griffith continuano ancora oggi, nel 1999 l’associazione dei registi cinematografici Americani cambiò nome al premio che da allora si chiama Guild’s Highest Honor.
Ma Griffith era davvero razzista e fascista? Difficile vedere la sua opera con gli occhi di un cittadino di cento anni fa, senza farci influenzare dai parametri della nostra epoca. Probabilmente non fu meno razzista di Handel col suo Rinaldo o di Shakespeare con Otello. Ma c’è anche chi non la pensava così. Genova, agosto 1982. Il palestinese Angelo Raja Humouda, fondatore nel 1975 della Cineteca Griffith, minacciò di bruciare in piazza De Ferrari la sua copia di Nascita di una nazione se le autorità non gli avessero concesso dei finanziamenti per trovare una sede permanente alla sua inestimabile collezione. Le autorità nemmeno gli risposero, ma fortunatamente la Cineteca Griffith esiste tuttora anche perché, per Angelo Raja Humouda, quel film non era razzista.
Una cosa è comunque certa. Al funerale di Griffith, artista controverso per eccellenza, solo una donna scoppiò in un pianto disperato davanti alla bara: era una donna di colore che aveva fatto la comparsa in Nascita di una nazione.
redazionale
Bibliografia
“David Wark Griffith” di Paolo Cherchi Usai – Il Castoro
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2014” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi