Il cinema è quasi per definizione una finzione, un’abile messa in scena, ma i primi film della storia proiettati gli ultimi giorni del 1895 dai fratelli Auguste e Louis Lumière, da L’uscita dalle officine Lumière (La Sortie de l’usine Lumière) a L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (L’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat), erano frammenti di vita reale. Erano dei documentari.
Successivamente il genere acquisì uno spessore quasi epico grazie a Robert Joseph Flaherty che realizzò pellicole capaci di fondere “uomo e natura” da Nanuk l’esquimese (Nanook of the North: A Story of Life and Love in the Actual Arctic, 1922) a L’uomo di Aran (Man of Aran, 1934) passando per Tabù (Tabu: A Story of the South Seas, 1931) realizzato con Friedrich Wilhelm Murnau. Col sovietico Dziga Vertov il documentario provò addirittura a scalfire la superiorità sul “cinema finzione” con opere quali L’uomo con la macchina da presa (Chelovek s kino-apparatom, 1929) e Tre canti su Lenin (Tri pesni o Lenine, 1934). Negli stessi anni i documentari divennero in Germania mero strumento di propaganda per il Nazismo “grazie” a Leni Riefenstahl che diresse Il trionfo della volontà (Triumph des Willens, 1935) e Olympia (1938). Un genere, tuttavia, che ha anche raccontato gli orrori del Nazismo, su tutti il monumentale Shoah (1984) di Claude Lanzmann. In questa rapida carrellata mi piace ricordare Echi da un regno oscuro (Echos aus einem düsteren Reich, 1990) di Werner Herzog su Jean-Bedel Bokassa, i documentari “sociali” del genovese Sergio Schenone (Ragazze di fabbrica, 2005 – Donne Lavoro, 2008), le pellicole di Wilma Labate (Maledetta mia, 2003 – Qualcosa di noi, 2014), i film inchiesta di Sabina Guzzanti (Draquila – L’Italia che trema, 2010 – La trattativa, 2014) fino ad arrivare al recentissimo Fuocoammare (2016) di Gianfranco Rosi selezionato a rappresentare l’Italia per l’Oscar al miglior film straniero 2017. Ma nel nuovo millennio un uomo, più di tutti, ha dato spessore al documentario: Michael Moore.
Proveniente da famiglia proletaria cattolica irlandese, Michael Francis Moore nacque il 23 aprile 1954 nel Michigan, per la precisione a Davidson un sobborgo di Flint. La città si sviluppò notevolmente negli anni ’60 grazie all’industrializzazione nel settore automobilistico al punto da sfiorare i 200000 abitanti. A Flint (gemellata non casualmente con la città di Togliatti in Russia), infatti, aveva sede una importante fabbrica della General Motors in cui lavoravano sia il nonno sia il padre di Michael. Anche la strada dei futuro regista sembrava tracciata, ma Moore preferì dedicarsi agli studi, anche se quella culla del sindacalismo e dell’industria automobilistica americana lo formò culturalmente e politicamente, ben più dell’università del Michigan che abbandonò nella seconda metà degli anni ’70.
Nel 1976 Moore iniziò a lavorare come giornalista per il periodico alternativo “Flint Voice” che sotto la sua direzione divenne il “Michigan Voice” (1977-1986). Fu quindi notato dagli editori della rivista progressista “Mother Jones”. Si trasferì pertanto a San Francisco, sede del giornale, per realizzare una serie di articoli su politica, ambiente, diritti umani e cultura. Ma i rapporti con la direzione non furono semplici e Michael Moore lasciò il “Mother Jones” dopo nemmeno due anni anche perché nella natia Flint stava succedendo qualcosa di impensabile.
La General Motors, infatti, nonostante gli enormi profitti, aveva deciso chiudere la fabbrica che dava da mangiare a migliaia di famiglie… compresa la sua. I licenziati in totale furono 35 mila con pesanti ricadute per l’intera Flint. Moore decise così di passare dagli articoli di denuncia al documentario. Nacque Roger & Me (1989) un film che descrive la mutata realtà sociale della città dove l’unico che ha ancora un lavoro è l’addetto agli sfratti. Filo conduttore di tutta l’opera la vana ricerca di Roger Smith, allora Presidente della General Motors.
L’idea iniziale era quella di portare Smith a Flint per mostrargli direttamente le conseguenze della decisione presa, ma il capitalista si negò (per poi dichiarare che aveva avuto diversi colloqui col regista). Tuttavia l’originalità e l’ironia mostrate per trattare un simile argomento, che urtarono inizialmente la sensibilità degli abitanti di Flint, fecero la fortuna del film che fu prodotto dalla Dog Eat Dog Films, la casa di produzione fondata appositamente dal regista. Roger & Me arrivò nelle sale americane nel dicembre del 1989 solo grazie all’intervento della Warner Bros e fu un successo: realizzato con meno di 200000 dollari, ne incassò 6 milioni!. Nel 2013 il documentario è stato inserito, insieme a Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino, nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti d’America.
Nel 1992 Michael Moore realizzò Bestiole da coccole o da macello: il ritorno a Flint (Pets or Meat: The Return to Flint) un cortometraggio di 23 minuti per la PBS, in cui il regista tornò ad intervistare alcuni degli abitanti della città natale già presenti in Roger & Me. Il titolo del film è riferito a Rhonda Britton che per sopravvivere vendeva conigli sia come animali domestici sia come carne.
Il successo ottenuto da Roger & Me spinse la NBC ad ingaggiare Michael Moore per “TV Nation”, un programma televisivo che alternava momenti comici e inchieste. La prima stagione, 9 puntate trasmesse dal 19 luglio al 28 dicembre 1994, fu molto apprezzato dalla critica, ma meno dal pubblico al punto che l’emittente televisiva cancellò la seconda stagione. La FOX acquistò così i diritti di “TV Nation”, ma dopo 8 episodi, il programma venne chiuso definitivamente.
Nel 1995 uscì nelle sale Operazione Canadian Bacon (Canadian Bacon), ad oggi unico film a soggetto nella filmografia di Moore. La guerra fredda è finita e per rialzare i sondaggi che lo danno in calo anche a causa della crisi dell’industria bellica, il Presidente degli Stati Uniti (Alan Alda) decide di alzare la tensione contro l’innocuo Canada, ma lo sceriffo di frontiera Bud Boomer (John Candy) prende troppo sul serio la cosa.
Girato nel 1993, ma uscito due anni dopo per la morte improvvisa del protagonista John Candy, Operazione Canadian Bacon è un film satirico, in parte ispirato a Il dottor Stranamore (1964) di Stanley Kubrick, in cui non mancano momenti divertenti, ma la finzione non si addiceva a Michael Moore. Il film, benché presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes nel 1995, passò nei cinema inosservato.
Moore nel 1996 pubblicò il volume “Giù le mani! L’altra America sfida potenti e prepotenti” (Downsize This! Random Threats from an Unarmed American) in cui affrontò il tema del ridimensionamento delle grandi compagnie che chiudevano le fabbriche negli USA per trasferirle all’estero. Il tour promozionale del libro venne ripreso nel documentario The Big One (1997) nel quale il regista attaccò frontalmente la produzione della Nike in Indonesia. L’anno successivo realizzò per la televisione il documentario And Justice for All (1998).
Nel 1999 tornò in TV per realizzare, sul modello di “TV Nation”, “The Awful Truth” (L’orribile verità). “Un incrocio tra la WWE (World Wrestling Federation) e la C-SPAN” disse Moore per descrivere il programma, una via di mezzo tra la più importante federazione di wrestling al mondo e il canale via cavo sull’attualità politica. Prodotta dalla britannica Channel 4, la trasmissione registrò due stagioni, per un totale di 24 puntate trasmesse sul canale televisivo Bravo.
Nel 2000, forte di una certa popolarità, Michael Moore sostenne la candidatura del verde Ralph Nader in occasione delle elezioni presidenziali. In qualche modo si pentì poiché il 7 novembre George W. Bush, tra voti fantasma e riconteggi, sconfisse Al Gore diventando il 43° Presidente degli Stati Uniti d’America. Il regista iniziò così a scrivere “Stupid White Men” nel quale denunciava, documentandoli, i brogli che portarono all’elezione di Bush. L’uscita del libro, programmata per l’autunno 2001, venne bloccata dalla casa editrice, HarperCollins, a seguito dell’11 settembre. Per gli editori il libro poteva uscire, ma “rivisto”, senza tutti quegli attacchi al Presidente Bush. Questo atto di censura fece scalpore al punto che “Stupid White Men” uscì, senza tagli, nella primavera del 2002.
Lo stesso anno uscì nelle sale Bowling a Columbine (Bowling for Columbine) un documentario inchiesta sul culto americano per le armi da fuoco. Moore partendo dalla strage della Columbine High School, nella quale persero la vita dodici studenti e un insegnante per mano di due minorenni che poi si suicidarono, analizza la diffusione delle armi da fuoco e la facilità con la quale si possono acquistare, affronta il tema del razzismo, mostra la “politica estera” statunitense (crudelmente indimenticabile il montaggio dei colpi di stato finanziati dagli USA sulle note di “What a wonderful world” di Louis Armstrong), sottolinea la funzione dei media americani nel generare paura, verifica le differenze col vicino Canada, torna a Flint dove un bambino di sei anni ha sparato ed ucciso una coetanea, affianca due sopravvissuti alla strage di Columbine che chiedono la messa al bando delle armi, fa visita all’attore Charlton Heston uomo di destra passato dall’Oscar per Ben Hur (1959) di William Wyler alla Presidenza della National Rifle Association (organizzazione americana che tutela i possessori di armi da fuoco) che, senza alcun scrupolo o sensibilità, tenne due grandi convegni nelle città sede delle stragi. Il regista cacciato da casa Heston vi lascerà la foto della piccola bambina uccisa dal coetaneo. Il titolo del film allude al fatto che prima della strage di Columbine i due assassini erano andati a giocare a bowling, considerata una materia di supporto.
Bowling a Columbine ottenne un successo senza precedenti per un documentario (oltre venti milioni di dollari incassati negli USA e più di cinquanta in totale) e si aggiudicò il Premio del 55º anniversario al Festival di Cannes (nonché la nomination Palma d’Oro a Michael Moore). Tra il 2002 e il 2003, fu premiato anche come Miglior documentario dalla seguenti rassegne: Broadcast Film Critics Association Award, Chicago Film Critics Association Award, National Board of Review Award, Independent Spirit Award, Kansas City Film Critics Circle Award. Nel 2003 Moore ottenne inoltre il Premio César come Miglior film straniero e soprattutto si aggiudicò l’Oscar come Miglior documentario. Il 23 marzo 2003 nel discorso di ringraziamento attaccò frontalmente George W. Bush e la guerra in Iraq che era iniziata pochi giorni prima. Queste le sue parole: “Viviamo in un’epoca di elezioni fittizie che fanno eleggere un presidente fittizio. Viviamo in un’epoca in cui un uomo ci manda in guerra per motivi fittizi. Noi siamo contro questa guerra, signor Bush. Si vergogni, signor Bush. Si vergogni”.
Istrionico, socialista con punte di populismo, Moore riuscì in un’operazione mai riuscita prima: portare un documentario nei grandi circuiti di distribuzione. Le sue denunce fecero così il giro del mondo al punto che in poco tempo il regista diventò, paradossalmente, ma non troppo, la principale spina nel fianco dell’amministrazione Bush. Con questa intenzione nacque Fahrenheit 9/11 (il cui titolo si ispira al romanzo di Ray Bradbury Fahrenheit 451) un documentario incentrato sugli ambigui rapporti tra la famiglia del Presidente USA, la famiglia reale saudita e la famiglia bin Laden. Un film sul terrorismo, sulle guerre in Iraq e Afghanistan, sul “governo della paura”, sulla restrizione dei diritti civili.
L’autentica ossessione verso Bush, fece perdere un po’ di linearità all’opera che comunque vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2004 (caso insolito per un documentario, l’unico precedente risaliva al 1956 quando venne premiato Il mondo del silenzio di Jacques-Yves Cousteau). Ritirando il premio dalle mani di Quentin Tarantino, Moore sottolineò che negli USA il film era ancora inedito. Infatti la Disney, che controllava la Miramax Films finanziatrice del film, si oppose alla distribuzione negli Stati Uniti poiché quel documentario era un durissimo atto d’accusa all’amministrazione Bush… mai scontrarsi con i potenti. La situazione si sbloccò allorché i fondatori della Miramax, Harvey e Bob Weinstein, acquistarono personalmente i diritti del film e, con l’aiuto di Lions Gate Films e IFC Films, fondarono un’apposita società di distribuzione, The Fellowship Adventure Group.
Le feroci polemiche alimentate da associazioni e media di destra fecero la fortuna del film. Uscito nelle sale USA il 25 giugno 2004, Fahrenheit 9/11 eguagliò nel primo fine settimana l’intero incasso di Bowling a Columbine e in un mese sfondò il tetto dei cento milioni di dollari. Con 119 milioni negli Stati Uniti e oltre 200 in totale Fahrenheit 9/11 rimane tutt’ora il documentario che ha incassato di più nella storia del cinema.
Non pago del successo del film, Moore le provò tutte, giustamente, per far perdere Bush. Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2004 e il regista supplicò, senza successo, Ralph Nader, passato dai Verdi ai Riformatori, di non ricandidarsi. Il 2 novembre George W. Bush venne, purtroppo, riconfermato Presidente degli Stati Uniti d’America (ininfluente, questa volta, il risultato di Nader passato da quasi 3 milioni di voti a meno di 500 mila).
Ma il lavoro di denuncia di Michael Moore non era certo finito. Dal 1999 pensava, infatti, ad un documentario sul sistema sanitario nazionale. L’idea si concretizzò con Sicko (2007) film in cui il regista svolge un’inchiesta paragonando il sistema americano, dove l’assistenza pubblica non esiste, ai sistemi in altri paesi visitando Canada, Inghilterra, Francia. Alla fine di questo viaggio accompagna gli eroi dell’11 settembre, affetti da malattie debilitanti cui sono state negate le cure mediche negli Stati Uniti, a Cuba dove trovano finalmente assistenza. Il titolo è un gioco di parole tra sick (malato) e KO.
In un solo colpo, e rinunciando al suo talvolta debordante protagonismo, Moore attaccò l’industria farmaceutica, le assicurazioni, le lobby politiche. Il film, che incassò oltre 24 milioni di dollari, fu presentato fuori concorso a Cannes e ottenne una nomination all’Oscar.
Sempre nel 2007 uscì nelle sale Captain Mike Across America che, filmato prima delle elezioni presidenziali del 2004, descrive il viaggio di Moore nei college americani delle città americane più in bilico tra John Kerry e George W. Bush. Il documentario venne rieditato dal regista e rilasciato gratuitamente su Internet col titolo di Slacker Uprising (2008).
Moore dichiarò “Vengo dalla working class. E’ raro che uno come me, che ha smesso di studiare dopo il liceo possa dirigere il proprio film, fare un programma TV o fare uscire un libro. Di solito non sentite parlare di noi, vero? Noi che costruiamo le vostre macchine, che puliamo i vostri bagni, non ci vedete la sera al telegiornale. Non abbiamo una voce nei media. Ecco che, finalmente, qualcuno come me, per qualche strano motivo, riesce a sfuggire al radar. E all’improvviso questo disturba alcune persone, soprattutto quelli con i soldi”. Con questa idea di “disturbare i ricchi”, nel 2009 realizzò Capitalism: A Love Story. Partendo dagli effetti della crisi economica mondiale, Moore si cimentò nel compito, non facile, di criticare il capitalismo nel Paese capitalista per eccellenza, arrivando addirittura a smontare l’equazione tra democrazia e libero mercato.
Sostenitore attivo del movimento Occupy Wall Street, Moore continua a far riflettere e a far discutere anche con gli ultimi due recentissimi lavori. Ad inizio anno è uscito Where to Invade Next (2016) in cui il regista suggerisce provocatoriamente agli Stati Uniti di invadere l’Europa per conquistare stili di vita migliori: i salari tedeschi, le mense scolastiche francesi, il sistema rieducativo delle carceri norvegesi, la liberalizzazione delle droghe in Portogallo e le ferie pagate e la maternità presenti in Italia (mentre il beneamato Governo Renzi col Si al referendum vuole farci assomigliare di più agli Stati Uniti… un motivo in più per votare NO).
Ancor più recente è Michael Moore in TrumpLand (2016) che raccoglie la registrazione di due spettacoli tenuti dallo stesso Moore al Murphy Theatre a Wilmington in Ohio l’8 ottobre del 2016. Il regista, dopo aver sostenuto Obama e appoggiato con grande determinazione Bernie Sanders nelle primarie dei democratici, col nuovo lavoro parla dei due principali candidati alla Presidenza degli USA, Hillary Clinton e Donald Trump, e ipotizza, con la consueta dissacrante ironia, cosa possa succedere nel caso ognuno di loro venisse eletto alla Casa Bianca. Bersaglio principale il candidato repubblicano Donald Trump.
La frase “L’elezione di Trump sarà il più grande fanculo mai registrato nella storia umana: e vi farà sentire bene” ha fatto il giro del mondo e ha fatto ipotizzare un appoggio al magnate americano, ma prosegue “per un giorno. Forse una settimana. Magari un mese. E poi succederà come ai britannici, che volevano mandare un messaggio: e quindi hanno votato per uscire dall’Europa per poi scoprire che se voti così, poi devi uscire dall’Europa”. Il regista il giorno della prima a New York ha spiegato “Il nostro obiettivo è che lo vedano quanti più americani possibile nei prossimi 5 o 10 giorni”.
L’8 novembre, tra una settimana esatta, gli statunitensi voteranno e siamo sicuri, qualunque sarà l’esito, che Michael Moore continuerà a fare le sue inchieste per raccontarci il lato oscuro del sogno americano e ad attaccare il potere… “Sono cresciuto con i Fratelli Marx. Con una cosa del genere è normale che uno diffidi dall’autorità”.
redazionale
Bibliografia
“Michael Moore” di Federico Ferrone – Il Castoro
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2014” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da
Immagine in evidenza da en.wikipedia.com, foto 1, 2, 3, 4, 5, 8, 9, 10, 11, 12 screenshot del film, foto 6 screenshot da youtube