L’11 settembre 2001 ha cambiato il corso della storia. A seguito degli attentati alle Torri gemelle, si sviluppò negli USA un’autentica psicosi alimentata da quello che è stato definito “il governo della paura”. Ogni cittadino, ancor più se straniero, veniva, infatti, considerato un “nemico degli Stati Uniti” e, se mussulmano, un potenziale terrorista. La settimana dopo l’attacco alle Twin Towers il Congresso attribuì al Presidente George W. Bush il potere di “usare tutta la forza necessaria e appropriata contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che egli ritenga abbiano organizzato, autorizzato, commesso o aiutato gli attacchi terroristici”.
Anche il mondo del cinema fu colpito e, come era accaduto decenni prima con il “maccartismo”, numerosi registi e attori vennero additati come nemici dell’America. Il primo fu Charlie Sheen che dichiarò: “Mi pare che la vera teoria della cospirazione sia credere che 19 dilettanti terroristi armati di taglierini abbiano dirottato quattro aerei e raggiunto il 75% dei loro obbiettivi. Questo solleva un sacco di domande”. Fu attaccato e insultato. Sharon Stone prese le sue difese così come Susan Sarandon e il regista Michael Moore, autentica spina nel fianco dell’amministrazione Bush, che realizzò Fahrenheit 9/11 vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2004, un film inchiesta sugli attentati e sulla politica governativa. Ma un altro coraggioso film aiutò a sottolineare che non esiste un modo univoco di pensare la Storia: 11’09″01 – September 11, in Italia noto semplicemente come 11 settembre 2001.
Poco dopo gli attentati il semi sconosciuto produttore televisivo francese Alain Brigand, allora quarantatreenne, iniziò ad interrogarsi su quella che egli stesso definì “una tragedia americana e una catastrofe mondiale”. Nella sua casa di Parigi pensò a come quei fatti potessero risuonare nel resto del mondo. Non cercò, tuttavia, una risposta da politici, storici o giornalisti, volle la visione degli artisti. Contattò quindi undici registi di undici nazionalità diverse per realizzare un film corale, composto appunto da undici cortometraggi. Ai cineasti venne data libertà assoluta con due soli limiti: quello del budget fissato in 400000 dollari e quello, forse più importante, del tempo. Ogni regista, infatti, che operava all’insaputa degli altri, aveva la durata simbolica di 11 minuti, 9 secondi e 1 fotogramma (nella maggior parte del mondo al di fuori degli Stati Uniti, le date sono indicate con il giorno precedente al mese, quindi l’11 settembre diventa 11/9).
Di grande profilo artistico e culturale gli undici, tra registe e registi, chiamati dal produttore per filmare le proprie reazioni agli attentati. Cineasti che meritano più di un cenno.
Una delle prime ad essere contattata da Alain Brigand fu Samira Makhmalbaf (Teheran, 15 febbraio 1980), figlia del regista Mohsen Makhmalbaf (Teheran, 29 maggio 1957), autore che ha portato con i suoi film uno spaccato di vita sociale, da segnalare Baycot (Il boicottaggio, 1985), Baysikelran (Il ciclista, 1987) e Salaam cinema (1995). Samira, che può in qualche modo essere associata alla figura di Forough Farrokhzad, debuttò diciassettenne con Sib (La mela, 1998) la storia poetica di due sorelle che, dopo essere state per anni sequestrate dal padre, scoprono il quartiere di Teheran dove hanno “vissuto”. La regista si affermò col successivo Takhte Siah (Lavagne, 2000). Girata in lingua kurda e coprodotta da Oliviero Toscani, nella pellicola due maestri girano il Kurdistan, devastato dalla guerra, in cerca di allievi, muniti solo delle loro lavagne. Takhte Siah, omaggio a Yilmaz Güney, si aggiudicò il premio della giuria al Festival di Cannes nel 2000. Da segnalare, infine, successivo ad 11 settembre 2001, Panj è asr (Alle cinque della sera, 2003) in cui Samira Makhmalbaf racconta l’Afghanistan del regime post-Talebano.
Ben più densa la storia cinematografica di Claude Lelouch (Parigi, 30 ottobre 1937), semplicemente il più grande regista francese del dopo Nouvelle Vague. Autore libero, scanzonato, divertente ed abile. Capace di passare con disinvoltura dal dramma alla commedia, dal comico al noir, dal musical alla fantascienza, dallo storico all’avventura. Dopo aver realizzato una serie di documentari, spot pubblicitari e di “scopitones” (dei videoclip musicali che si vedevano in particolare jukebox), Lelouch debuttò sul grande schermo con Le propre de l’homme (Ciò che è proprio dell’uomo, 1960), ma fu con Un homme et une femme (Un uomo, una donna, 1966) che ottenne fama e riconoscimenti. Il film narra l’intensa storia d’amore tra due vedovi, Anne (Anouk Aimée) e Jean-Louis (Jean-Louis Trintignant), tormentati dal ricordo del loro passato. Benché la critica fu scettica, Un uomo, una donna fu campione di incassi, si aggiudicò il Grand Prix per il miglior film al 19º Festival di Cannes, ex aequo con Signore & signori (1965) di Pietro Germi, vinse un Golden Globe e due premi Oscar, quello per il Miglior film straniero e quello per la Miglior sceneggiatura originale. Successo anche per la colonna sonora che venne composta da Francis Lai poi autore e premio Oscar per la celebre “Where Do I Begin?” tratta dal film Love Story diretto nel 1970 da Arthur Hiller. Tra le decine di film realizzati da Claude Lelouch sono, inoltre, da segnalare Le Voyou (La canaglia, 1970) un avvincente noir, Partir, revenir (Tornare per rivivere, 1985), su una famiglia ebrea denunciata alla Gestapo e Les misérables (I miserabili, 1995) con Jean-Paul Belmondo, che valse al regista il secondo Golden Globe.
Importante anche l’opera di Youssef Chahine noto anche come Yusuf Shahin (Alessandria d’Egitto, 25 gennaio 1926 – Il Cairo, 27 luglio 2008) raffinato cineasta egiziano formatosi negli USA. Molto attivo fin dagli anni ’50 da ricordare: Sira fi l-wadi (Lotta sul fiume, 1954) che lanciò la carriera di Omar Sharif; Bab al-hadid (Stazione centrale o La porta di ferro, 1958) un dramma sulla gelosia raccontato nella quotidianità di una stazione ferroviaria; Jamila al-jazairia (Djamila l’algerina, 1958) un bel ritratto femminile dedicato alla rivoluzionaria Djamila Bouhired; al-Ard (La terra, 1969) un dramma contadino; Al-usfur (Il passero, 1973) in cui il regista attaccò la corruzione dilagante nel proprio Paese e accusò esplicitamente l’Egitto per la sconfitta nella Guerra dei sei giorni; Al-Masir (Il destino, 1997) sulla figura del filosofo Averroè, spunto per sottolineare il ruolo reazionario del fondamentalismo islamico (il film venne presentato in concorso a Cannes che quell’anno tributò un premio al regista per l’insieme della sua opera). Notevole, infine, la tetralogia di Shanin dedicata alla sua città natale formata da: Iskandariyya… lih? (Alessandria… perché?, 1978) che si aggiudicò l’Orso d’argento al Festival di Berlino, Hadduta misriyya (Una storia egiziana, 1982), Iskandariyya kaman wa kaman (Alessandria ancora e per sempre, 1990) e Iskandariyya-New York (Alessandria-New York, 2004), pellicole autobiografiche in cui il regista fece esplicito riferimento alla sua bisessualità.
Alain Brigand contattò anche Danis Tanovic (Zenica, 20 febbraio 1969), il regista bosniaco che aveva appena vinto l’Oscar per il Miglior film straniero nonché il premio per la Migliore sceneggiatura a Cannes per il suo No Man’s Land (2001) ambientato nel 1993 in piena guerra dei Balcani. Da segnalare anche L’Enfer (2005) su sceneggiatura di Krzysztof Kieslowski e Krzysztof Piesiewicz.
Si era, invece, formato nel Burkina Faso di Thomas Sankara Idrissa Ouedraogo (Banfora, 21 gennaio 1954 – Ouagadougou, 18 febbraio 2018) che con la sua opera raccontò l’Africa con gli occhi di un africano. Tra i maggiori registi del suo continente sono da segnalare Tenga (1986), Yam daabo (1986), Yaaba (1989), Tilaï (1990), con cui si aggiudicò il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes, Karim na Sala (1991) e Samba Traoré (1993).
Ha meno bisogno di presentazioni Kenneth Charles Loach (Nuneaton, 17 giugno 1936) meglio noto come Ken Loach. Militante comunista nella sinistra rivoluzionaria britannica (in Italia ha più volte appoggiato Rifondazione Comunista e nelle ultime Elezioni politiche ha sostenuto Potere al popolo).
Regista che ha messo, e continua a mettere, la questione sociale al centro del suo lavoro. I disoccupati, i precari, i lavoratori, i proletari, i rivoluzionari sono i protagonisti dei suoi film. Da segnalare: Riff Raff (1991), Raining Stones (Piovono pietre, 1993), Ladybird Ladybird (1994), Land and Freedom (Terra e libertà, 1995) il miglior film sulla Guerra civile spagnola, Carla’s Song (La canzone di Carla, 1996), My Name Is Joe (1998), The Navigators (Paul, Mick e gli altri, 2001), Sweet Sixteen (2002) per arrivare agli ultimi Jimmy’s Hall (Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà, 2014) e I, Daniel Blake (Io, Daniel Blake, 2016).
Alain Brigand alla ricerca per il globo dei “suoi” undici registi, posò anche gli occhi su un messicano allora poco conosciuto, Alejandro González Iñárritu (Città del Messico, 15 agosto 1963) che qualche anno dopo trovò l’affermazione mondiale vincendo due Oscar consecutivi alla Miglior regia, cosa riuscita in precedenza solo a John Ford e Joseph L. Mankiewicz, per Birdman or The Unexpected Virtue of Ignorance (Birdman o L’imprevedibile virtù dell’ignoranza, 2014) con Michael Keaton e The Revenant (Revenant – Redivivo, 2015) interpretato da Leonardo Di Caprio che, sotto la guida del regista centroamericano, vinse l’agognato premio Oscar come Miglior attore protagonista.
Ben più conosciuto era l’israeliano Amos Gitai (Haifa, 11 ottobre 1950) prolifico documentarista cinematografico e televisivo che, nel documentare la condizione del popolo palestinese, ebbe non pochi problemi con la censura che lo costrinsero ad emigrare prima negli Stati Uniti poi a Parigi. Figlio di un ebreo tedesco scappato durante il Nazismo e di una palestinese, con le sue pellicole Amos Gitai ha raccontato la storia di Israele con i suoi problemi politici e sociali. Durante la sua sosta forzata all’estero realizzò la cosiddetta “Trilogia dell’esilio” formata da Esther (1986), Berlin-Yerushalaim (1989) e L’esprit de l’exil (Golem – Lo spirito dell’esilio, 1992). Non meno importante il suo lavoro come documentarista da ricordare The Neo-Fascist Trilogy: I. In the Valley of the Wupper (Nella vallata della Wupper, 1994), The Neo-Fascist Trilogy: II. In the Name of the Duce (Nel nome del Duce, 1994), incentrato sulla campagna elettorale amministrativa di Alessandra Mussolini a Napoli, e The Neo-Fascist Trilogy: III. Queen Mary (1994). Tre film che rappresentavano un monito sul ritorno del fascismo in Europa. Monito inascoltato.
Meno impegnata politicamente l’indiana Mira Nair (Bhubaneswar, 15 ottobre 1957) attiva soprattutto negli USA, già documentarista e autrice di alcuni film notevoli: Salaam Bombay (1988) la storia di un ragazzino solo nella grande città; Mississippi Masala (1991) una storia d’amore tra un’indiana e un afroamericano; The Perez Family (La famiglia Perez, 1995) da un romanzo di Christine Bell; Monsoon Wedding (Monsoon Wedding – Matrimonio indiano, 2001), grande affresco familiare e sociale vincitore del Leone d’Oro alla 58ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e Vanity Fair (La fiera della vanità, 2003). Mira Nair, una regista a metà strada tra Bollywood e Hollywood.
Statunitense, ma assai poco vicino al “sistema”, era ed è il decimo regista coinvolto da Brigand ovvero Sean Penn (Santa Monica, 17 agosto 1960). Debuttò come attore in un episodio della serie TV Little House on the Prairie (La casa nella prateria) per poi lasciare il segno in We’re No Angels (Non siamo angeli, 1989) al fianco di Robert De Niro diretto da Neil Jordan, Carlito’s Way (1993) con Al Pacino diretto da Brian De Palma. Seguirono Dead Man Walking (1995) per la regia di Tim Robbins, Sweet and Lowdown (Accordi e disaccordi, 1999) di Woody Allen e I Am Sam (Mi chiamo Sam, 2001) di Jessie Nelson, interpretazioni valsero a Penn tre nomination all’Oscar al Miglior attore protagonista. L’ambita statuetta arrivò per i successivi Mystic River (2003) di Clint Eastwood e Milk (2008) di Gus Van Sant.
Dietro la macchina da presa Sean Penn debuttò nel 1991 con The Indian Runner (Lupo solitario) con David Morse, Viggo Mortensen e Valeria Golino. Seguirono The Crossing Guard (3 giorni per la verità, 1995), film indipendente interpretato da Jack Nicholson, The Pledge (La promessa, 2001) ancora con Nicholson e, più recentemente, Into the Wild (2007) e The Last Face (Il tuo ultimo sguardo, 2016).
Attivista per i diritti civili e nel movimento pacifista, politicamente impegnato a sinistra, Penn sostenne sempre il Presidente del Venezuela Hugo Chávez e alla sua morte affermò: “Oggi gli Stati Uniti hanno perso un amico che non hanno mai saputo di avere. I poveri di tutto il mondo hanno perso un campione. Io ho perso un amico la cui amicizia è stata una benedizione per me. Esprimo la mia vicinanza alla famiglia del Presidente Chávez e al popolo Venezuelano”. L’attore e regista fu aspramente criticato anche per aver intervistato il latitante narcotrafficante messicano Joaquín Guzmán detto “El Chapo”, poco prima del suo arresto.
L’undicesimo regista coinvolto da Brigand fu Shohei Imamura (Tokyo, 15 settembre 1926 – Tokyo, 30 maggio 2006) tra gli autori più provocatori, insieme a Nagisa Oshima, della Nouvelle Vague giapponese. Giunto al cinema nel dopoguerra, Imamura fu prima assistente di Yasujiro Ozu (anche nel bellissimo Viaggio a Tokio) poi si allontanò da quello stile elegante, rigoroso e raffinato per “sposare con tutte le forze questi due problemi: la parte inferiore del corpo umano e la parte inferiore della struttura sociale su cui si fonda ostinatamente la realtà quotidiana giapponese” (intervista nel Dossier Imamura dei “Cahiers du cinéma”, nn 166-167, maggio-giugno 1965). Da segnalare Buta to gunkan (Porci, geishe e marinai, 1961), Akai satsui (Invito all’omicidio, 1964), Jinruigaku nyûmon (Introduzione all’antropologia, 1965), Ningen Johatsu (Evaporazione dell’uomo, 1967), Kamigami no fukaki yokubo (Il profondo desiderio degli dei, 1968). Imamura vinse due volte la Palma d’oro a Cannes per Narayama bushiko (La ballata di Narayama, 1983) e Unagi (L’anguilla, 1997). 11 settembre 2001 fu il suo ultimo film.
Trovati gli undici cineasti, il progetto di Alain Brigand procedeva, forte della prospettiva che i registi portavano con la loro cultura, i loro ricordi, le loro vicende, la loro lingua. Il produttore, coadiuvato da Jacques Perrin, seguì ogni passo della lavorazione capendo la visione e le ragioni di terre lontane. Un esempio fu lampante. Recandosi prima a Sarajevo poi a Mostar, per il corto diretto da Danis Tanovic, Brigand capì ad esempio che quelle città distrutte dalla guerra rappresentavano l'”11 settembre” per quei popoli.
L’uscita del film venne fissata per l’11 settembre 2002 a Venezia, ma se il primo contributo, quello di Samira Makhmalbaf, giunse a maggio, l’ultimo solo a fine luglio costringendo Alain Brigand ad un autentico tour de force per garantire la prima in laguna. Non fu ovviamente casuale l’ordine degli undici film. Per aprire 11’09″01 – September 11 venne scelto l’episodio della regista iraniana, che rende omaggio all’innocenza dei bambini, mentre a chiudere fu il film di Shohei Imamura che propone una riflessione filosofica sulla guerra. Al centro l’opera di Alejandro González Iñárritu poiché porta al cuore stesso degli attentati. Esattamente un anno dopo gli attentati alle Twin Towers, 11 settembre 2001 venne presentato alla stampa.
Episodio 1 (Iran, diretto da Samira Makhmalbaf). La notizia degli attentati dell’11 settembre raggiunge un campo profughi afgano. Una maestra (Maryam Karimi) interroga i suoi piccoli alunni su quello che è accaduto a New York, ma scopre che ai bambini sfugge perfino l’idea di cosa sia un grattacielo e per farglielo comprendere li porta a fare un minuto di silenzio vicino ad un’alta ciminiera.
Episodio 2 (Francia, diretto da Claude Lelouch). Una ragazza sordomuta francese (Emannuelle Laborit), in crisi col fidanzato (Jérôme Horry), si accorge di ciò che è accaduto alle Torri gemelle solo quando l’uomo torna a casa sconvolto e coperto di polvere.
Episodio 3 (Egitto, diretto da Yusuf Shahin). Il 10 settembre del 2001 un regista egiziano (Nour El Sherif) viene allontanato con la sua troupe dal World Trade Center perché privo di autorizzazione. Non potrà più girare quelle scene e pochi giorni dopo gli appare il fantasma di un marine (Ahmad Haroun), ucciso in un attentato in Libano, che lo accompagna nella casa di un kamikaze per cercare di capire la follia di questa guerra.
Episodio 4 (Bosnia-Erzegovina, diretto da Danis Tanovic). La notizia del crollo delle Torri gemelle non ferma la giovane bosniaca (Dzana Pinjo) che, come tutti gli 11 del mese, manifesta per l’attentato di Srebrenica avvenuto l’11 luglio 1995.
Episodio 5 (Burkina Faso, diretto da Idrissa Ouédraogo). Un gruppo di ragazzini di Ouagadougou (Lionel Zizréel Guire, René Aimé Bassinga, Lionel Gaël Folikoue, Rodrigue André Idani, Alex Martial Traoré) spera di intascare la taglia per la cattura di Bin Laden per poter pagare le medicine alla madre malata di uno di loro. Ma la polizia non crede alle segnalazioni.
Episodio 6 (Regno Unito, diretto da Ken Loach). Pablo (Vladimir Vega), esule cileno a Londra, scrive ai parenti delle vittime delle Twin Towers per ricordare che l’11 settembre è anche l’anniversario del golpe cileno a cui gli USA parteciparono sostenendo attivamente Augusto Pinochet contro il Presidente democraticamente eletto Saldavor Allende. L’uomo conclude la lettera con l’auspicio che, come lui si unirà nel ricordo delle vittime dell’11 settembre 2001, loro si uniranno a lui nel ricordo delle vittime dell’11 settembre 1973.
Episodio 7 (Messico, diretto da Alejandro González Iñárritu). L’oscurità dello schermo, con i commenti in diretta dell’attentato, è saltuariamente interrotta da brevissime scene di persone che si lanciano nel vuoto. Alla fine una scritta ripetuta due volte, una in caratteri arabi, una in caratteri latini: “La luce di Dio ci illumina o ci acceca?”.
Episodio 8 (Israele, diretto da Amos Gitai). Gli sforzi di una cronista (Keren Mor) per documentare un attentato nelle strade di Tel Aviv si scontra con la priorità data dall’emittente ai fatti di New York.
Episodio 9 (India, diretto da Mira Nair). La madre (Tanvi Azmi) di un pakistano naturalizzato americano, viene discriminata e attaccata nel quartiere poiché la sparizione del figlio è considerata, anche dall’FBI, la prova del suo coinvolgimento con i terroristi. Ma il giovane era morto, da eroe, sotto le macerie.
Episodio 10 (USA, diretto da Sean Penn). Un anziano vedovo (Ernest Borgnine, premio Oscar nel 1956 per Marty, vita di un timido) vive nel suo appartamento nel ricordo della moglie, parlandole, sistemandole con cura i vestisti, coltivando il suo vaso di fiori in un appartamento piccolo e buio. La luce del sole illuminerà l’abitazione solo dopo il crollo delle Twin Towers facendo, finalmente, fiorire la pianta.
Episodio 11 (Giappone, diretto da Shohei Imamura). Yoichi (Tomorô Taguchi), un soldato tornato dal fronte della Seconda guerra mondiale, traumatizzato per quello che ha visto comincia a comportarsi come un serpente. Cacciato di casa, dopo aver ingoiato un topo sotto gli occhi inorriditi della madre (Mitsuko Baishô), striscia via ignorando anche l’appello della moglie (Kumiko Aso) “Ti disgusta così tanto essere uomo?”, mentre la scritta “Le guerre sante non esistono” chiude la pellicola.
Un film bello e importante, reso possibile dall’intuizione di Alain Brigand e da questo incontro di razze, di culture, di religioni e di continenti. Negli undici episodi c’è chi ha firmato riflessioni apertamente politiche (Ken Loach), altri si sono chiesti la reazione di popoli lontanissimi dagli Stati Uniti (Samira Makhmalbaf e Idrissa Ouédraogo), altri ancora hanno descritto le tragedie della loro terra (Danis Tanovic e Amos Gitai). C’è chi si è ispirato ad una storia vera (Mira Nair), chi ha fatto un percorso tra storia e coscienza (Shahin), chi ha portato i sensi all’estremo (Alejandro González Iñárritu), chi ha fatto una sintesi metaforica (Imamura) e chi ha filmato una poesia come Claude Lelouch e Sean Penn, i due episodi più belli.
Dopo la presentazione a Venezia, tuttavia, il dibattito su 11’09″01 – September 11 si svolse solo sul piano politico, ovvero se si trattasse di un’opera antiamericana. Tra i media più feroci quelli legati all’allora Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi. Negli USA il film venne proiettato per la prima volta solo nel 2003, ma non ha mai avuto una distribuzione.
Da allora sono stati realizzati numerosi film e documentari su quell’attentato, inclusi United 93 (2006) di Paul Greengrass e World Trade Center (2006) di Oliver Stone, ma la riflessione collettiva di 11’09″01 – September 11, non limitata al presente, ma proiettata verso il futuro, ha dimostrato, e continua a dimostrare, che l’11 settembre è qualcosa di assai più complesso di quello che molti vogliono far credere.
redazionale
Bibliografia
“Fuori i rossi da Hollywood” di Sciltian Gastaldi – Lindau
“Storia del cinema indiano” di Elena Aime – Lindau
“Storia del cinema giapponese” di Max Tessier
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2017” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: immagine in evidenza, foto 6, 10 Screenshot del film Süss l’ebreo, foto 1 Screenshot del film L’ebreo errante, foto 2, 14 da it.wikimedia.org, foto 3, 4, 5, 7, 8, 15 da pinterest.com, foto 11, 14 Screenshot del documentario Harlan: all’ombra di Suss l’ebreo, foto 12 foto Screenshot del film La cittadella degli eroi.