La gabbia delle violenza è anche la violenza della gabbia: quella delle arti marziali miste che uniscono discipline come il muay, il thai, lo judo, la lotta libera, il grappling, il pugilato e kickboxing. Pugni, calci, prese di ogni tipo in un ottagono, delimitato da alte barriere di ferro dipinte solitamente di nero, dove si affrontano i contendenti. Lì tutto pare permesso. Fuori dalla gabbia non può essere così. Dentro alla gabbia puoi sfogare tutti gli istinti repressi. Fuori non potresti… Un condizionale d’obbligo, visto che invece qualcuno pensa di poter agire fuori come agisce dentro l’ottagono. Senza alcuna remora.
Quello che è capitato a Willy Monteiro Duarte pare proprio somigliare ad una delle “specializzazioni” delle tipologie di lotta citate, il “Ground and pound“. Detta in soldoni, significa dominare l’avversario che si trova a terra colpendolo ripetutamente con pugni, gomitate e ginocchiate. Lo chiamano “sport“, così come anche la caccia è definita tale: a me sembrano soltanto tentativi di edulcorare la voglia spasmodica di sfogare i propri istinti mediante impulsi violenti oltre, nel caso della caccia, all’essere lieti di uccidere degli esseri viventi, tanto quanto lo siamo noi.
Forse sarebbe il caso di rivedere l’utilizzo di alcune parole che con troppa facilità estendiamo per significato a situazioni, persone e cose che nemmeno lontanamente rientrano nell’origine del concetto che esprimono…
Willy sognava di giocare al calcio e di indossare la maglia della Roma. Era un aiuto cuoco che voleva diventare chef; un ragazzo dallo sguardo dolce, mite. Lo si percepisce dalle foto che girano su Facebook, sulla rete in generale. Se messe a confronto con i suoi assassini, l’evidenza della totale differenza nello stile di vita e anche negli sport praticati è assoluta, senza bisogno di alcuna interpretazione. Attenzione però a non sterotipare la vicenda, a non farne una questione di mera immagine. Non sarebbe cambiato nulla se a morire per un calcio in fronte fosse stato un ragazzo magari ombroso, dallo sguardo truce e per niente mite. Mitezza o durezza di carattere, bellezza o bruttezza, nessuna qualità presuntamente negativa della vittima rende l’aggressore e assassino meno colpevole.
Questa è una ennesima storia ignobile di violenza allo stato più gratuito, perché la muscolarità permea l’intera vita di alcuni giovani che hanno mitizzato la forza delle mani, la potenza delle braccia e delle gambe: al di là della fisicità c’è ben poco. I confini dell’esistenza racchiusi solamente nel corpo. Di empatia sociale, di appartenenza a una comunità in questa storia non c’è quasi nulla se non il rapporto antisociale, crudele, criminale e brutale, tristemente emerso a causa proprio della violenza.
Sono giovani che hanno trasformato sé stessi soltanto entro la dimensionalità dei corpi in cui si identificano oltre ogni naturale percezione. Prima di essere loro stessi, sono un concentrato di forza e, letteralmente, di “praepotentia”; sono macchine per la difesa della famiglia da un lato (un mito sacrale, un sangue da proteggere «Con le mani come se non ci fosse un domani», scrivono sui social) e in strumenti di offesa verso chiunque osasse contestargli qualcosa, criticarne i comportamenti o sollevare obiezioni. Nessuno spazio al bene dell’intelletto, al dialogo. Una certa aderenza a posizioni politiche di destra finisce poi per circoscrivere il ritratto disperante di giovani vite gettate via nella tristezza di un egocentrismo che, lo si voglia o meno, è un prodotto di questa società. Non l’unico, per fortuna.
Nessuna autorità può oltrepassare quella stabilita dalla banda. Lo deve aver poi capito bene quel vigile urbano che, avendoli invitati ad indossare correttaente le mascherine, è finito vittima di una gragunola di colpi. Proprio come nella “gabbia” delle arti marziali miste.
«Ogni volta che entri in gabbia è un’emozione diversa, ma il pensiero della vittoria è sempre lo stesso». Vincere. E vinceremo! Nulla si deve permettere di frapporsi tra chi deve prevalere perché superiore e chi deve soccombere perché inferiore. La scala dei valori è dettata esclusivamente dalla forza, dalla potenza e dalla capacità di far tenere lo sguardo basso agli altri che ti passano accanto. La gente li chiamava “la banda di Artena“, specializzata in creare guai, in provocare risse e nel cumulare piccoli precedenti penali. La banda vive nella gabbia della sua legge e nessuno può dirle cosa deve fare. L’ottagono della lotta marziale è trasposto nella vita di tutti i giorni e gli avversari sono coloro che possono suscitare una reazione da parte della banda se vengono violate le sue leggi. Leggi che sono uguali soltanto per chi le fa. E le fa rispettare sempre e soltanto con la violenza.
L’avversario, per il fatto d’essere tale, è considerato tale e deve perdere. Ogni mezzo è permesso. Ogni mezzo viene usato nel ring di questo “trionfo della volontà“. Nel momento in cui qualcuno entra nel perimetro della loro gabbia mentale, una delle tante che posseggono, quella che contiene tutte le altre e chi li rende avulsi dal consesso civile, dal vivere in armonia con gli altri, viene spinto dentro, colpito e lasciato lì, per terra. Ad attendere la vittoria sul ring. Ad osservarne la morte su un marciapiede di una qualunque strada di un paesino fino ad ora sconosciuto della nostra così bella Italia.
Un miscuglio di cattiveria, razzismo, odio, violenza frutto di terreni antisociali su cui si innestano le malepiante della forza piuttosto che del dialogo, dello scontro piuttosto che dell’incontro. E non vale l’evangelico «Padre, perdona loro perché non sanno quello che essi fanno». Lo sanno ciò che fanno, perché non si può dire che siano dei fini intellettuali ma non sono di certo incapaci di intendere e/o di volere. Agiscono consapevolmente ma senza una coscienza civile, senza quel limite etico che dovrebbe bloccarti nel momento in cui non solo infrangi le leggi ma fai qualcosa agli altri che non vorresti fosse fatto a te (qui invece il Vangelo merita d’essere citato e sottolineato abbondantemente).
Dopo aver picchiato il povero Willy, agonizzante per venti minuti, hanno pensato bene di andare a bere una birra. Del tutto tranquillamente, per poi affermare, una volta arrivate le forze dell’ordine ad arrestarli, che «…non volevamo ucciderlo».
L’alibi dell’involontatierà e la preterintenzionalità cedono sotto tutta la brutalità di un’aggressione che rientra a tutto tondo in una visione centripeta della propria esistenza, tale da non poter prescindere da una sorta di egoismo esponenziale che si protente interamente sul terreno dello scontro frontale, senza mediazione alcuna lasciata alle parole o anche agli insulti. No. In questi giovani uomini, perché parliamo di persone che non sfiorano nemmeno i 30 anni, non c’è posto per una considerazione egualitaria dell’altro nei confronti di sé stessi.
L’hanno picchiato perché erano abituati così a trattare chi gli si metteva in mezzo, chi provava magari a farli ragionare. Un ossimoro beffardo: provare a generare uno stimolo pensante in chi ha deciso di depensare, di affidarsi esclusivamente al proprio corpo, alle mani, ai piedi per relazionarsi col mondo.
Non riconoscono i loro sentimenti, le loro percezioni e sensazioni come patrimonio comune che proviene anche da chi gli sta intorno. Del resto, come portrebbero? Se – adottando per un attimo un imperativo categorico kantiano – tutti avessero come misura di tutte le cose il tipo di violenza che regola il distanziamento antisociale che si sono imposti questi ventenni, vivremmo in una società ultra-primitiva, in una specie di “stato di natura” dove “homo homini lupus“.
Oppure ci troveremmo in uno di quei mondi post-atomici, immaginati in tanti film, dove non esiste diritto, dove non esiste organizzazione sociale, dove solo le bande criminali hanno il dominio delle rispettive zone che si sono spartite. Niente legge, niente regole comuni e comunitarie. Il più forte non conta che sia anche intelligente per comandare: anzi, molto spesso il rapporto tra forza e intelletto è inversamente proporzionale. La scissione tra pensiero e azione viene terribilmente sublimata: laddove esiste la forza non può esservi pensiero, ragionamento, idee, dialogo.
Le poche parole di queste ore sono ancora più sferzanti di un pugno, sono insulti per la vittima: «Era solo un immigrato», scrive la Repubblica citando espressioni in tutto e per tutto “familiari“. Servire a questi individui un alibi familiare, facendo credere che sia colpa anche di altri, è troppo semplice. Queste dichiarazioni se sono vere, nel senso di sincere, non tolgono nulla alle responsabilità di chi ha brutalmente ucciso Willy. Semmai aggravano la posizione dei due/quattro che non si sono smarcati da un contesto simile.
Rimane soltanto il dominatore, quindi colui che vive esclusivamente dell’assolutezza della forza e che altra ragione non conosce nel rapporto con i suoi simili: ecco, questo, se vogliamo, è sinonimo di un fascismo inespresso a parole ma praticato ampiamente con i fatti. Tutto, alla fine, si tiene e si mantiene in una spirale orrenda, dove non c’è spazio minimo per quella cultura con cui – come osservava giustamente Philippe Daverio – si può salvare il mondo.
MARCO SFERINI
8 settembre 2020
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