William of Ockham: una vita oltre Aristotele e gli universali

Il problema filosofico degli “universali” è antico non come il mondo, ma certamente come buona parte del pensiero occidentale. Prima che in Aristotele, lo si ritrova accennato in Socrate,...

Il problema filosofico degli “universali” è antico non come il mondo, ma certamente come buona parte del pensiero occidentale. Prima che in Aristotele, lo si ritrova accennato in Socrate, che li individua nella naturalità oggettiva dell’esistente; in Platone che li colloca nel suo iperuranio e ne fa quindi il prototipo delle idee a cui corrispondono le realtà imperfette del sensibile terreno; e in una serie di considerazioni posteriori all’aristotelismo stesso che, lo si voglia o no, rimane il motore immobile di questa neoteorizzazione dei concetti un po’ validi per tutti.

Il filosofo di Stagira parte dall’interpretazione socratica, proprio là dove si tenta l’astrazione dal concreto per elaborare nomi, concetti e traduzioni metafisiche di ciò che è già di per sé considerabile come osservabile nella sua essenza ontologica, presente tanto a sé stesso pur nell’inanimato (pensiamo ad una roccia) o nella vita vegetale, oppure ancora nel grado differente (considerato superiore) dell’evoluzione materiale che prende coscienza di sé stessa: animali non umani e animali umani. Sebbene con livelli differenti di autoconsapevolezza.

L’universale in quanto tale, dunque, sarebbe per Aristotele conoscibile mediante un processo di mera astrazione. L’obiezione platoniana e cinica allora diviene questa: come è possibile giungere all’universale dal particola se non si conosce anzitutto l’universale stesso? Facciamo un esempio: io so che la gamba di un tavolo è tale perché conosco il tavolo in sé e per sé. Ma se non avessi contezza dell’oggetto nella sua interezza, come potrei arrivare ad astrarre e concettualizzare l’idea di “gamba del tavolo“?

Quello che distingue il platonismo dall’aristotelismo nella diatriba sugli universali è quindi questa conoscenza preventiva che si ha dell’universale stesso: del tavolo, della sedia, del mare, del cielo, di qualunque cosa ci circondi e possa essere scomposta in altre più piccole, sia materialmente, sia concettualmente, perché appartenenti ad un “uno” più grande. Questo fraseggiare filosofico era insopportabile a William of Ockham, che noi abbiamo italianizzato un po’ maldestramente in Guglielmo di Occam.

Il frate francescano nato appunto in quella città del Surrey, nell’Inghilterra a cavallo tra il Duecento e il Trecento, ha trascorso la sua vita nel ricercare il modo migliore per semplificare qualunque tipo di problema e qualunque soluzione si potesse trovare, spingendo il ragionamento verso una economia tanto di sé stesso quanto del linguaggio e della concettualizzazione delle idee e dei pensieri. All’inizio della sua travagliata vita, segnata dal confronto aspro con un papato ricusato dall’impero, nella lotta tra guelfi e ghibellini, tra Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro, il problema degli universali non è ancora così dirimente.

Lo diventa nel momento in cui la questione diviene pregiudiziale e vi si fa leva, da parte anche di ambienti ecclesistico-accademici, per sostenere una serie di posizioni a favore del primato papale sulla laicità dello Stato, teorizzando la subordinazione dei sovrani al pontefice, chiara emanazione del disegno divino e, quindi, unica, diretta, incontestabile – seppure dogmatica – discendenza della volontà suprema in terra. Forse anche partendo da questi presupposti più politico-istituzionali che filosofici, William si getta nell’indagine marcatamente più vicina all’empirismo piuttosto che alla teorizzazione metafisica.

Se l’atto della conoscenza è, come presupponeva Aristotele, vincolato al vaglio delle categorie e dei concetti universali, la domanda che il frate si fa è: ma davvero è necessario questo passaggio? Non sarà una astrazione creata dal nostro pensiero per ricercare una spiegazione più complicata a ciò che, invece, potrebbe avere una enunciazione e una comprensione profondamente più semplice, quasi intuitiva? Empirismo e nominalismo si legano qui in una rivoluzione copernicana del pensiero. Perché la messa in discussione degli universali diverrà, in tutta evidenza, la premessa per una critica a tutto tondo del potere papale.

Noto per il suo famoso “rasoio“, William di Ockham non ne fa mai direttamente cenno nelle sue numerose opere; ma lo si può dedurre dalle tante descrizioni di un metodo conoscitivo che prescinda dal molto e che punti al poco in quanto essenziale alla conoscenza diretta e non mediata e, quindi, ostacolata, da tutta una fattispecie di meditazioni che hanno dato seguito ad artifici dialettici spesso in contraddizione tra loro e inefficaci nell’acquisizione di una maggiore consapevolezza dell’esistente.

Proviamo a condurre il discorso ockhamiano sul piano teologico e teleologico: la grande questione insoluta dell’esistenza o inesistenza di un dio è un problema che viene affidato o alla fede o alla ragione. Per la scienza non c’è affermazione e nemmeno negazione, ma soltanto osservazione empirica dell’esistente e continua formulazione di dubbi da oltrepassare per ottenere nuovi livelli di conoscenza oggettiva, verificabile mediante esperimenti in laboratorio e riscontri palesi. Per la fede esiste l’imperiturità anche come mutevolezza della materia, ma sempre dopo la “creazione” del mondo (quindi, per estensione del contetto, dell’universo).

Dunque, se affrontiamo queste problematiche col metodo aristotelico del passaggio nelle strettoie degli universali, dovremmo conseguire, anche un po’ sillogisticamente, che essendo dio il massimo di tutto, tempo, spazio, entità, visibile e invisibile, concreto e astratto, materiale e immateriale, non lo si può pensare a sua volta come “creato“, ma come mai creato. Quindi, sempre esistito, oltre il tempo umanamente concepibile. Se così è, perché l’universo dovrebbe essere una “creazione” di dio?

Perché non potrebbe invece essere quell’esistente che gli corrisponde panteisticamente senza un punto di origine, di nascita, di inizio? Non potrebbe l’universo essere dio stesso e, quindi, nella sua imperscrutabilità, essere infinito tanto nello spazio (che da noi è pensato sempre come un vuoto in mezzo alla materia roteante delle galassie e dei pianeti) quanto del tempo (che da noi è ritenuto come qualcosa di espandibile mediante una linearità pressoché inimmaginabile perché senza fine…)? Frate William ci dice: «Pluralitas non est ponenda sine necessitate (Non considerare la pluralità se non è necessario)».

Ciò vuol dire che davanti a due opzioni che hanno lo stesso scopo e che sono, almeno concettualmente equipollenti, si deve preferire quella che, per arrivare alla conclusione, offre meno presupposti possibili. La semplicità ockhamiana è una economia non tirchia delle idee, non pigra nello sforzo mentale, ma realistica nella ricerca della congiunzione tra pensiero e realtà, tra ipotesi e sintesi, tra idea delle cose e le cose stesse. Il “novacula Occami” (per l’appunto il “rasoio di Occam“) in questo frangente ci spinge alla considerazione di un dio che coincide col mondo, con l’esistente e che non è “creatore” sulla spinta delle esigenze universalistiche della mente umana.

In pratica (o, se volte, per punto di fede, o in teoria…) la vita eterna se esiste in qualche altra dimensionalità, impercettibile per noi in questa vita detta “terrena“, non è un desiderio inconscio e conscio dell’essere umano che attribuisce a dio la realizzazione dell’aldilà dalla morte. In questo caso, usando il novacula ockhamiano, la vita eterna potrebbe essere una caratteristica intrinseca dell’esistenza, che prescinde dalle idee precostituite e attribuite dall’angoscia tutta nostra per l’irrisolvibilità della vita alla potenza creatrice di dio.

Il dio di Ockham quindi non muove da nulla, esiste. E non serve nemmeno anteporre o postporre un complemento di tempo continuato: perché la coincidenza di dio con il tutto è la quintessenza del prescindere dal prima e dal dopo, come categorie del pensiero umano che, in questo caso, è una intermediazione parziale, particolare e, in parte, astratta di una realtà che va ben oltre i confini della nostra mente. Se è quindi vero, però, che è meglio raffrontarsi con l’esistente mediante il “principio di economia“, può avere una qualche ragione il porsi il problema dell’esistenza imperitura della materia?

Se l’universo non è stato creato da dio ma è sempre esistito unitamente a lui, allora il presupposto creazionista viene logicamente meno. Qui si apre un’altra grande questione filosofico-scientifica: il rapporto tra causa ed effetto. Se l’universo non è effetto di nessuna causa di per sé e in sé, come può contenere incessantemente questa correlazione in ogni movimento della materia medesima? Tutto ciò che si muove è spinto da forze che sono cause e che inducono a trasformazioni che sono effetti. Esiste quindi una contraddizione tra l’interezza incasuata dell’universo e la compresenza in esso delle cause?

Purtroppo il rasoio di Occam ci è utile fino ad un certo punto. Perché i problemi che possiamo immaginare nella ricerca di un significato delle cose e dell’esistente sono molti di più di quelli che si può ipotizzare e ad una domanda ne sorge spontanea sempre un’altra. Se, per esempio, facciamo riferimento ai rapporti tra causa ed effetto nelle trasformazioni della materia, possiamo provare a spiegare il tutto con un rigido determinismo naturale: ciò che avviene non accade per caso ma, come è facile osservare proprio dagli studi scientifici, secondo precise leggi evolutive e seguendo sempre (o comunque nella maggior parte dei casi) gli stessi processi.

Dal seme della quercia nascerà una quercia che in quel seme esiste già. Forse non come idea, ma nel congiungersi con gli altri elementi naturali (terra, acqua, sole, aria, ecc.), diviene quel bell’albero frondoso alla cui ombra quieta si può riposare durante il torrido caldo estivo. Ecco che la rivoluzione di William of Ockham apre ad un altro scenario decisamente affascinante: una filosofia che ammette la propria insufficienza conoscitiva e che, quindi, si danna ad una logorante speculazione autocelebrativa a volte, autoconsolante altre, ma mai capace di dare risposte ai dubbi esistenziali umani.

Qualcuno ha ritenuto possibile affermare che la fisica moderna abbia superato la filosofia e, quindi, ne abbia in qualche modo determinato la morte, per così dire, cerebrale. Se William pone col suo empirismo e nominalismo una cesura netta col passato medievale che univa fede e ragione, mettendo da parte tutta una serie di precondizioni dogmatiche che facevano della Chiesa l’interprete incontestabile delle realtà oggettive e materiali mediante una sequela di precetti metafisici affidati alla volontà divina per mediazione pontificia, la scienza moderna ne riprende in parte alcune intuizioni.

E lo fa per approfondire i contrasti tra pensiero semplicemente pensato e pensiero messo al servizio del dubbio e della sperimentazione. Il carattere empiristico dello scientismo permetterà proprio al frate francescano (ostracizzato al pari del generale del suo ordine e dell’imperatore bavarese) di lasciarsi dietro una gran parte di quel teoricismo fisico di Aristotele che supponeva una unità del mondo e una sua finitezza, per andare verso un approccio più democriteo. Il fascino della ricerca delle cause finali di ogni cosa scavalca l’immobilismo di un mondo che si vorrebbe preordinato nell’atto della “creazione“.

Che, in quanto tale, è comunque un movimento incessante e continuo. Eppure la tentazione di sottoporre tutto ad una staticità volontaristica suprema è ancora presente in buona parte del pensiero occidentale, influenzato, nemmeno a dirlo, dalla facilità con cui la Chiesa si adatta ai tempi, ai luoghi e agli spazi in cui agisce la mente e muta senza soluzione di continuità. L’esclusione della ricerca delle cause finali di ogni evento è per William di Ockham molto più dell’andare verso dio. È avvicinare la sua fede all’anelito che lo spinge a contestare il vecchio mondo aristotelizzato.

Forse William non è un precursore di nulla, ma di sicuro è uno dei primi, nei tempi ormai antichi, ad aver provato la tentazione di far uscire il pensiero da una dialettica immateriale e averlo collocato, con tutte le sue responsabilità, nel mondo e in tutte le contraddizioni che l’animalità umana percepisce, vive e patisce nei confronti dell’indefinibile insensatezza dell’esistenza. Propria e di tutto ciò che la riguarda.

MARCO SFERINI

25 agosto 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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