Sono solo 370 i voti che promuovono la Commissione von der Leyen II. In termini numerici, la maggioranza basta e avanza, ma non si tratta di un trionfo. Quando il 18 luglio, lo stesso Parlamento europeo riunito a Strasburgo aveva formalmente «eletto» Ursula, scelta secondo i Trattati Ue dal Consiglio europeo a fine giugno, i consensi erano 401.
Perché allora, prima dell’indicazione dei singoli commissari da parte degli stati, la piattaforma pro-Ue aveva avuto il consenso di Ppe, S&D, Renew con l’aggiunta dei Verdi. A conti fatti, il bis passa con 31 voti di meno, ovvero solo una manciata di numeri in più della soglia psicologica dei 361, pari alla maggioranza assoluta più uno dell’assemblea parlamentare.
Molti meno consensi che nel voto finale sul collegio dei commissari del von der Leyen I: nel 2019 l’Eurocamera espresse, anche allora il 27 novembre, 461 sì. Ben più dei 383 che Ursula aveva guadagnato al momento dell’elezione come presidente, nel luglio 2019.
Anche il confronto con i presidenti di Commissione prima di lei, da Juncker a Barroso, è impietoso. Nel 1999, l’esecutivo Prodi ottenne il record di 510 voti a favore sul totale degli allora 626 eurodeputati.
Questa commissione nasce dunque sotto il segno della frammentazione politica. Nessun gruppo, tranne Left e ultradestra (PfE orbaniani e Sovranisti) votano compatti. Dentro il Patrioti, il caso è opposto: la Lega, pur nel governo Meloni e a favore di Fitto, si oppone, ma è una frattura annunciata. Rispettate le previsioni del voto contrario di una grossa parte di Verdi e Socialisti, francesi e tedeschi in testa, qualche liberale e la componente spagnola del Ppe, irremovibile sulla commissaria socialista Teresa Ribera.
Prevalgono dunque le logiche nazionali. Lo stesso gruppo dei Conservatori (Ecr) è spaccato, con FdI e belgi a favore, polacchi del Pis, francesi di Reconquete e altri contrari. Ma in fondo per i nazionalisti, il voto divergente è perfino un vanto.
Eppure, se la maggioranza zoppica e la Commissione parte debole, a emergere più forte è proprio von der Leyen. «Da regina a imperatrice», titola la testata Politico.eu, ricordando la centralità della leader tedesca su un collegio da lei plasmato, dalle competenze opportunamente frazionate.
Un altro dato politico che si impone leggendo in controluce le dichiarazioni di Nicola Procaccini e Carlo Fidanza, rispettivamente co-presidente Ecr e capodelegazione FdI, quando hanno ribadito che con Fitto la destra è arrivata al governo dell’Ue per restare: «Tutto comincia adesso», hanno detto riferendosi al secondo mandato per il governo von der Leyen, formalmente in servizio dal 1 dicembre fino all’autunno 2029. «Su ogni dossier legislativo che passerà per quest’aula, noi ci saremo». Propaganda di destra, certo, ma anche concreta minaccia.
La strategia dei meloniani si basa su un ragionamento. Ogni norma Ue nasce per iniziativa della Commissione e passa poi in una sorta di bicameralismo composto dall’Eurocamera e dal Consiglio Ue, legislatore dove siedono i ministri dei governi dei Ventisette. Tra questi ultimi, i leader di sinistra si contano ormai sulle dita di una mano.
Per questo, al di là dell’apparente tenuta della maggioranza pro-Europa e della impraticabilità di un’alternativa rivolta esplicitamente a destra, lo spostamento dell’asse politico apparirà sempre più chiaro, se le forze di sinistra non lo contrasteranno punto per punto.
È vero, l’Ue non si governa con una coalizione che tiene in piedi un governo, come invece accade negli stati nazionali. Piuttosto, il consenso si crea sui temi. Ma sul posizionamento riguardo ai valori – democrazia, stato di diritto, alleanze internazionali – le istanze della destra sono quanto mai fallaci. Già oggi l’Ursula bis in versione arricchita da Verdi (ma non la delegazione italiana) a sinistra e una parte di Ecr, segnatamente FdI, a destra, è atteso alla prova dei fatti.
Si voterà a Strasburgo sulla mozione per armare l’Ucraina «contro la guerra di aggressione russa e la crescente cooperazione militare tra Russia e Nord Corea», promossa da diversi gruppi tra cui Verdi, S&D, Ppe, Renew ma anche Ecr. Contemporaneamente, ma in sede di Consiglio a Bruxelles, i ministri del Commercio Ue (Urso per l’Italia), torneranno a discutere la vexata quaestio della proroga alla fine dei motori termini, provvedimento chiave per la transizione ecologica e per il futuro dell’industria europea dell’automotive.
Fatta la Commissione, la battaglia politica è appena cominciata.
ANDREA VALDAMBRINI
foto: screenshot You Tube ed elaborazione propria