«Lo Zapata è nato trent’anni fa per colmare un vuoto politico, sociale, culturale e se pensiamo quale fosse il vuoto allora e quale sia oggi viene da ridere o, per meglio dire, da piangere». Giovanni Mancioppi, ormai tra gli «anziani» del centro sociale genovese a rischio sgombero per volontà del Comune e del «sindaco del ponte» Marco Bucci, nel 1994 era poco più che un adolescente.
La città dove un gruppo di studenti, vicini alla sinistra operaia ma non solo, occuparono una scuola abbandonata e qualche mese dopo gli ex Magazzini del Sale, in periferia, era ubriaca di cambiamenti, della rinascita legata alle celebrazioni Colombiane, della pioggia di denaro pubblico che ne accelerò la trasformazione da capitale portuale a meta turistica.
Da quegli anni lo Zapata, il primo e più importante centro sociale di Genova, ha attraversato molte fasi, ha vissuto i suoi alti e bassi e rispetto a un tempo le sue porte si aprono con meno frequenza, ma ha avuto la capacità di plasmarsi, sempre, attorno alle esigenze sociali del momento. Dopo aver resistito anche al colpo inflitto dalla pandemia – che per mesi ha azzerato la principale fonte di autofinanziamento, i concerti – è tornato a colmare vuoti.
Via Sampierdarena, l’angiporto moderno, che negli anni Novanta era una sorta di quadrilatero di strip-club e bische clandestine, oggi è un simbolo della desertificazione. Tanto che qualche settimana fa, l’apertura di una succursale dell’agenzia funebre Taffo, è stata salutata quasi come un evento epocale.
Ieri quella strada è tornata a vivere, solcata da 600 persone in un corteo organizzato per far capire all’amministrazione di centrodestra quali sono le diverse realtà che compongono lo Zapata. Artisti di ieri e di oggi, i nomi genovesi del reggae, della dub, dello ska e delle jam session del giovedì, ma anche i ragazzi e le ragazze della nuova galassia hip hop.
I genitori con i bambini che si allenano a tirare di pugilato alla palestra popolare, su quel ring da dove Camilla Fadda ha iniziato il suo percorso fino a diventare campionessa italiana. Le famiglie e gli anziani che lo Zapata ha aiutato con raccolte di generi di prima necessità durante il periodo Covid e non solo.
I calciatori della Resistente, nei cui ranghi militano i migranti. I giovani e meno giovani che frequentano la biblioteca, i laboratori di teatro, i corsi professionali da fonico o la «cucina rebelde» e poi alcuni politici, sindacati, studenti delle superiori e dell’università insieme a cinquantenni e sessantenni che nelle stanze dello Zapata hanno organizzato la mobilitazione durante il G8 del 2001.
Un corteo di sostenitori in carne e ossa dopo quello andato in scena, nei giorni scorsi, nel «metaverso»: dalla vignetta di Zerocalcare e dal suo «giù le mani dagli spazi sociali» ai videomessaggi di musicisti come Caparezza, Davide Toffolo, gli Statuto, i Meganoidi, la Bandabardò, i Punkreas.
Loredana Caldarola, un’altra delle attiviste che più di altre stanno mettendo la faccia in questa battaglia, sottolinea un aspetto fondamentale. «Siamo qui per ricordare a chi non lo ricorda che cosa sono i centri sociali nel quotidiano di una città, luoghi di aggregazione, di contaminazione, di inclusione ma soprattutto di pensiero critico».
La spada di Damocle dello sgombero dello Zapata pende da una trave che si chiama Pnrr. Il Comune di Genova ha a disposizione milioni di euro di fondi europei per la riqualificazione di Sampierdarena, quartiere per altri versi penalizzato dalle strategie dell’amministrazione (una viabilità impattante, il futuro dislocamento di alcuni depositi chimici, insediamento a rischio di incidente rilevante).
I cantieri dei progetti legati al Pnrr devono partire in fretta e tra questi c’è anche la ristrutturazione degli ex Magazzini del Sale. Il Comune pensa di destinare i locali all’Accademia linguistica delle belle arti. Poco importa che gli studenti dell’accademia siano in gran parte frequentatori dello Zapata e che il suo direttore Guido Fiorato abbia dichiarato che «non sarà l’accademia a sfrattare il centro sociale».
Bucci per quell’edificio ha altri piani. Il primo incontro tra il sindaco e gli attivisti dello Zapata è fissato il 20 febbraio. A oggi all’indirizzo del Csoa non è arrivato alcun avviso di sgombero. L’unica comunicazione è una lettera che solleva il problema di una morosità da 120mila euro legata a canoni di concessione non pagati. Un’accusa che i responsabili dello Zapata respingono al mittente: la questione del contratto tra Comune e centro sociale non è chiara – dicono – così come le cifre presentate.
NEL 2011 durante il mandato di Marta Vincenzi era stata stipulata una convenzione che «regolarizzava» quattro centri sociali cittadini, tra cui lo Zapata. Con un’associazione presieduta da Don Gallo il centro sociale sarebbe stato una sorta di conduttore dell’immobile, in quel caso del demanio.
Nel frattempo, però, l’edificio è passato al Comune nel 2015 e da questo momento le carte non parlano chiaro. Una situazione simile ha portato, nell’ottobre 2021, allo sgombero di un altro centro sociale che rientrava nella convenzione, il Terra di Nessuno. Anche quello insediato in un edificio per cui è prevista una riconversione con fondi Pnrr.
«Lo sgombero è l’extrema ratio», ha ripetuto in questi giorni il sindaco Bucci che ha fatto sapere di voler offrire allo Zapata uno spazio alternativo «a cinque minuti a piedi, come tutte le associazioni potrà partecipare a un bando e avere canoni di concessione ridotti anche del 90%».
In attesa che la proposta si concretizzi, nel centro sociale c’è chi è perplesso di fronte all’idea di una soluzione che non contempli l’occupazione e chi apre al dialogo. «Non siamo qui per dire un No ma per dire Sì, allo Zapata – ha affermato Giovanni Mancioppi dalla testa del corteo – Sì al riconoscimento del nostro valore, del lavoro che abbiamo svolto a favore della città, del suo sviluppo e del nostro potenziale, noi non siamo un’associazione qualsiasi».
GIULIA MIETTA
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