In un mondo di “protagonisti” la figura del caratterista è fondamentale. Come scrisse il critico Ermanno Comuzio: “Caratterista vuol dire per noi quell’attore che riveste un carattere umano, che incarna un personaggio vivo e non una macchietta, quell’attore che abitualmente non ricopre parti di protagonista, ma che è dotato di eccezionale forza interpretativa, con o senza sottolineature tipiche, abbia o non abbia la barba, o la pancia”. Attori e di attrici che non finiscono sulla locandina, ma arricchiscono la pellicola, basti pensare a Carlo Pisacane, Nino Taranto o Gigi Reder.
Oggi uno dei caratteristi più noti, sicuramente il più simpatico, è Stefano Bicocchi (San Giovanni in Persiceto, 23 dicembre 1957), meglio conosciuto come Vito. Mi concede con grande disponibilità questa chiacchierata che, in tempi di coronavirus, avviene telefonicamente. “State in casa” è il suo appello, “Vi dicessero che c’è da raccogliere un campo di pomodori, ma vi dicono di stare in casa. Leggete un libro, guardatevi un film”.
Attore di cabaret, teatro, cinema, televisione, comico, cuoco. Oggi hai conquistato un nuovo pubblico con la trasmissione Vito con i Suoi. La musica della sigla, scritta da Paolo Vivaldi e Filippo Trecca, si chiama “Fellini Sound”. Forse non è un caso visto al cinema hai debuttato con La voce della luna di Federico Fellini, tratto da “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni, film che lo stesso regista definì un “racconto senza racconto”, in cui si ispirò al disordine e all’insensatezza del mondo contemporaneo. Nel cast Roberto Benigni e Paolo Villaggio, ma forse il personaggio più “felliniano” è il tuo Micheluzzi. Sarà banale chiedertelo, ma come è stato lavorare con Fellini?
È stata una bella storia. È stato un incontro molto bello, molto piacevole. Era una persona di una gentilezza e di una modestia fuori dal comune. Ancor più nel nostro mondo. La mattina quando arrivavo sul set, mi veniva incontro, mi dava un bacino e poi mi chiedeva “Vitolino vuoi il caffè o il cappuccino?”, me lo andava a prendere e mi faceva sedere sulla sua sedia.
Uno dei più grandi di sempre…
… con sempre due o tre giornalisti internazionali dietro che gli “rompevano i maroni”, ma aveva queste attenzioni per gli attori.
È stato un bel percorso. Tra l’altro dovevo girare molte scene con Benigni, solo che Roberto in quel periodo non stava troppo bene e quindi le scene le girai per una settimana solo con Fellini, ed essere dentro un set di Fellini voleva dire essere dentro al cinema, nell’affermazione più classica e alta.
C’era il copione?
No, non c’era copione. Mi chiedeva: “Vitolino, lo sai cosa devi fare oggi?”, io rispondevo “no” e lui cercava un pezzo di carta e scriveva la battuta. Questo per dirti che sapeva esattamente cosa si doveva fare. Mi dava le battute, ma poi mi fece doppiare con uno che aveva la voce uguale alla mia. Fellini voleva avere l’opportunità in sala di montaggio di decidere all’ultimo momento che cosa fare dire agli attori, anche se il labiale non corrispondeva, ma non gliene è mai importato niente.
Poi c’è la famosa questione dei “numeri”?
Con Donald Sutherland si racconta che Fellini gli disse semplicemente “Dì dei numeri”. Era una sua prerogativa artistica di tenersi per il doppiaggio la possibilità di cambiare qualsiasi cosa, di fare completamente un altro film. Solamente con Marcello Mastroianni mantenne un tipo di lavorazione diverso.
Davvero un’esperienza fondamentale per la mia vita artistica. Il primo film che ho fatto, l’ho fatto con Fellini.
Non tutti lo possono vantare.
E poi con un ruolo importante. Io sono nei titoli di testa a nome singolo, sai che i nomi degli attori nel cinema contano: come sei messo, in che situazione sei.
Anche in seguito ho avuto la fortuna di lavorare nel cinema con registi di un certo tipo, di un certo livello. La mia fisicità, il mio modo di recitare, infatti, non mi permettono di essere, capiscimi, un “attore qualunque”. Sono molto ben caratterizzato. Chi mi vuole deve necessariamente scrivere una parte per me. Così è stato per Benvenuti, così è stato per Ligabue in Radiofreccia, per Cupellini in Lezioni di cioccolato. Ho fatto una ventina di film. Altri miei colleghi ne fanno molti di più perché sono meno “caratterizzati”. Ma se da un lato ne ho fatti di meno, dall’altro quelli che ho interpretato sono tutti centrati, perché le parti sono state scritte per me.
Davvero. Ci torneremo, ma recentemente ho visto Oggi sposi con Luca Argentero in cui interpreti un poliziotto un po’ imbranato che mangia in continuazione. Molto divertente.
Come no, “Porchetta e distintivo”, la regia era di Luca Lucini.
Tornando a La voce della luna, è vero che Fellini ti voleva come protagonista?
Certo, gli piaceva il mio personaggio. All’epoca lavoravo al Gran Pavese Varietà facendo questo personaggio, appunto Vito, che non parlava e aveva gli occhi sgranati. L’idea me la propose in camerino quando venne al Sistina a vederci. Poi chiaramente io non avevo un nome per essere protagonista di un film di Fellini.
Lasciasti comunque il passo a due grandi come Benigni e Villaggio…
Mica due da ridere. Ma a me spiace per un altro motivo. Durante le riprese e alla fine del film, quando ci salutammo Fellini mi disse “mi son trovato molto bene a lavorare con te. Sicuramente ci saranno altre belle occasioni per trovarci su un set cinematografico”. Ma quello fu il suo ultimo film. Poverino, se ne andò dopo poco.
Nel cast anche altri artisti provenienti dal Gran Pavese Varietà.
C’era Syusy Blady che aveva un ruolo molto importante all’interno del film, era la “sorella” di Benigni, c’era Eraldo Turra, uno dei due Gemelli Ruggeri, e anche Patrizio Roversi. Fellini venne a vederci, come detto, al Sistina e prese in gruppo praticamente tutti. L’unico che non prese fu Luciano Manzalini, che di questa cosa soffrì moltissimo, mentre per noi divenne uno sfottio divertente dire “stai più in là, noi abbiamo lavorato con Fellini e tu no”.
È col Gran Pavese Varietà che è nato il personaggio di Vito?
Si. In via del Pratello a Bologna nel Circolo ARCI Cesare Pavese, dove Paolini andava a fare lezione. Un posto importante. Il mio personaggio era il cugino di Syusy Blady che chiamò il suo parente del sud, che non sapeva fare niente, a recitare. Il clientelismo e il favoritismo a livello altissimo. E Vito era il nome perfetto. Non l’ho mai più cambiato. Sono quattro lettere, nessun giornalista lo sbaglia.
Dopo il varietà sei passato alla televisione. Da Lupo solitario, che Umberto Eco definì “varietà del futuro” a L’araba fenice, devo confessarti che la prima immagine che ho di te è quella vicino a Moana Pozzi nuda che raccontava le vere vergogne d’Italia, per arrivare a Drive In. In cosa questi programmi erano innovativi?
Erano innovativi perché in quel periodo la televisione sperimentava tanto e Pubblitalia non era ancora così importante, incombente e in qualche modo decisiva nei programmi. Oggi Antonio Ricci, con tutto il rispetto e l’amicizia, al di là di Striscia la notizia e Paperissima, non riesce più a fare programmi che rimarranno negli “atlanti della televisione”.
La stessa opinione che ha espresso sulle nostre pagine anche Mario Molinari.
Arrivano i soldi e tutto cambia. Anche Gino e Michele agli inizi erano graffianti, ma negli ultimi anni a Zelig bastava fare audience, c’era dentro di tutto senza un progetto. Mentre all’inizio c’era un’idea e grandi artisti che hanno fatto la storia della televisione. Una storia che resterà.
Son passati trent’anni dai tuoi programmi e se ne parla ancora.
Un grande critico televisivo di Repubblica disse di Lupo solitario: “L’unico programma di cui si parlerà tra cinquanta anni”. Un gran bel complimento.
Fai parte di una bella storia televisiva.
Sono molto contento del percorso che ho fatto. Non ho nostalgie perché le cose hanno un inizio e una fine. Ma quello fu un gran periodo. Eravamo a Milano, nella “Milano da bere”, ma con la mentalità emiliana, contadina e operaia. Noi di sera stavamo in casa a giocare a carte, non andavamo alle feste. Questa è stata la nostra fortuna: venire da delle famiglie che ci hanno fatto capire il senso del lavoro e del denaro. Sai quanti ne ho visti rovinarsi? Avevamo 22 anni, giravamo scortati. Fai presto ad andare giù di testa. Ma grazie a quegli insegnamenti ci siamo salvati e siamo ancora qui, dopo trent’anni anni, che lavoriamo in modo importante. Tutti quanti.
Tornando al cinema, hai avuto un bel sodalizio artistico con Alessandro Benvenuti. Da Ivo il tardivo, sulla condizione di un emarginato, per il quale ricevetti una nomination al Ciak d’Oro, poi vinta da Giancarlo Giannini, a Ritorno in casa Gori col meraviglioso Faustino che, in una scena, arriva “trotterellando” e lancia un mazzo di gigli sulla bara. Io rido sempre quando vedo quella sequenza…
Fu una mia improvvisazione. Dopo averla fatta ho sentito il classico STOP e un boato da parte di tutti i presenti. Faceva parte del personaggio. Un’improvvisazione possibile grazie al clima sul set. Alessandro è un bravo regista, va nell’intimo, ti fa lavorare nelle tue corde. Ho avuto la fortuna di lavorare al cinema, in teatro, in televisione con registi molto bravi.
Non ti pare quella di Alessandro Benvenuti, di Francesco Nuti, sia una pagina di cinema troppo spesso dimenticata?
Si. Era una commedia che si avvicinava molto a quelle di Monicelli e di grandi attori come Tognazzi, Gassman, Manfredi. Il riavvicinamento a questo tipo di commedia si è avuto negli ultimi anni con i lavori di Lucini, di Cupellini, con cui ho avuto il piacere di lavorare.
Ma oggi purtroppo il cinema è diventato tutto romano, se non sei di Roma non fai cinema. Ci sono quei dieci attori e attrici, bravissimi, straordinariamente bravi. Sono dei fenomeni come Pierfrancesco Favino, uno dei più grandi attori che abbiamo in Italia e non solo, ma ormai il cinema italiano è solo a Roma.
Tra i film realizzati da Benvenuti c’è anche I miei più cari amici, una pellicola che anticipò la stagione dei reality e del Grande Fratello. Nel ricchissimo cast anche Flavio Bucci, recentemente scomparso. Un tuo ricordo?
Non girammo scene assieme, era molto riservato al punto di non mangiare col resto della troupe, ma era davvero molto bravo e naturale. Un grande attore.
Sempre negli anni Novanta partecipi ai film Per non dimenticare di Massimo Martelli sulla strage di Bologna, Volontari di Domenico Costanzo, sulla vita dei militi, Prima la musica poi le parole di Fulvio Wetzl, sul tema della disabilità. Quanto è importante utilizzare il cinema per trasmettere valori in una società che li sta un po’ perdendo?
Molto importante. Il cinema è un mezzo di comunicazione straordinariamente importante. Ho fatto anche diversi corti in cui prendevamo in oggetto delle situazioni sociali importanti. È la funzione del cinema. Anche la commedia può veicolare dei messaggi. I primi film dei Vanzina, ad esempio, le prime “vacanze di Natale” erano uno spaccato di società molto preciso, penso al ritratto degli yuppie milanesi. Poi col tempo la valanga è ruzzolata molto in basso, ma devo dirti che quando li passano in TV, se capita, li guardo e rido.
Da Fellini, che fa storia a parte, alla stagione toscano-emiliana fino ad arrivare a film più recenti, alcuni li abbiamo già citati, come Asini (1999) di Antonello Grimaldi, Le barzellette (2004) di Carlo Vanzina, Lezioni di cioccolato (2007) di Claudio Cupellini, Oggi sposi (2009) di Luca Lucini, Bar Sport (2011) di Massimo Martelli, Lezioni di cioccolato 2 (2011) di Alessio Maria Federici, Tutto tutto niente niente (2012) di Giulio Manfredonia, ultimo film di Paolo Villaggio. Da quando hai iniziato a fare cinema, è cambiato il modo di fare comicità?
La comicità è cambiata perché è cambiata la società. Quello che secondo me bisogna mantenere è sempre uno stile e una classe, evitando la comicità facile e volgare, perché quella la fa già gente simpatica al bar.
Su Le Barzellette voglio però aggiungere una cosa. Io non ho mai trovato un set come quello dei Vanzina. Di una professionalità che non ti puoi immaginare. Io arrivavo alla mattina, c’era la macchina che mi veniva a prendere, mi portava nella mia roulotte, mi vestivano, mi truccavano, mi portavano sul set dove già avevano fatto le luci con una controfigura della mia altezza. Una precisione, una perfezione, un silenzio, un rispetto assoluto per gli attori.
In quel film avevo tre episodi, due sono stati montati, quello del vigile e quello del postino, il terzo, presente negli extra del DVD, raccontava, invece, la storia di un playboy che per essere riconosciuto tale si apparta con una ragazza e invita gli amici a guardare e a verificare. Per girare i Vanzina trovarono un luogo sulle colline romane raggiungibile, tra strade e mulattiere, dopo un’ora e mezza. Quando arrivai il set era incredibilmente pronto, inclusa la roulotte. Carlo Vanzina era un grande del cinema. Veramente un grande.
Cambiando un po’ argomento, hai lavorato in Radiofreccia il film di Luciano Ligabue e in Albakiara, film sugli adolescenti inquieti e drogati, ispirato alla canzone di Vasco Rossi, col figlio Davide tra i protagonisti. Sei l’unico ad essere riuscito ad unire i due grandi artisti rock italiani?
Sembra di si [ride]…
Battute a parte, quali sono i tuoi gusti musicali?
Ascolto i cantautori, ma ultimamente mi sono reso conto di una mia grande pecca, di una mia grande ignoranza sulla nuova musica. Così in macchina ascolto Radio Italia per “vedere”, imparare, conoscere i nuovi cantanti. Mi si è aperto un mondo straordinario, persone che non sapevo neanche che esistessero, che hanno delle cose da dire. Vedendo a Sanremo Achille Lauro son rimasto entusiasta. C’è una nuova generazione di cantanti che parlano con un linguaggio e una musica diversa. Contemporanea.
Io ho trovato a tratti surreali le recenti polemiche sui testi. Vasco Rossi, in Colpa d’Alfredo, cantava “è andata a casa con il negro la troia”…
Esatto. Uno può fare un testo di una canzone, parlare di un’esperienza forte senza esserne stato il protagonista. Se parlo di uno stupro posso non essere io che ho stuprato, ma provo a raccontare una storia.
Sei principalmente noto per i ruoli comici, per quella maschera che naturalmente hai, ma hai anche recitato in film drammatici come I Vicerè (2007) di Roberto Faenza con Lucia Bosè che cogliamo l’occasione di ricordare e, soprattutto, L’uomo che verrà (2009) di Giorgio Diritti (recentemente autore di Volevo nascondermi), una storia forte sulle stragi nazifasciste di Marzabotto viste con gli occhi di una bambina che salva il fratellino, l’uomo che verrà del titolo. Sul tema hai anche realizzato un monologo “Bello ciao” che raccoglie testimonianze al femminile di quegli anni drammatici. È davvero importante tramandare quella storia, anche perché l’attualità ci dice che si sta perdendo…
Siamo un Paese che dimentica troppo facilmente, ma una pagina così importante della nostra storia, della nostra cultura, non può e non deve essere dimenticata.
Tu ti ricordi che in “Bello ciao” raccontavo storie di guerra, ma anche storie di vita quotidiana di quel periodo. Se non si capisce cosa hanno vissuto, è difficile andare avanti. La memoria è molto importante e penso che raccontare, una tradizione orale, sia positivo per le generazioni che verranno dopo di noi. Perché morti i nostri genitori, parlo di quelli che hanno la mia età, rischia di crearsi un vuoto culturale immenso.
Uno degli aspetti che mi piace di quel film, tra La terra trema e Novecento, è l’uso del dialetto.
Fondamentale per tramandare quella cultura.
Questo e altri film hanno avuto finanziamenti pubblici, come La grande bellezza. Sono ancora necessari per avere film di qualità e non piegare tutto al mercato?
Certo, sono fondamentali, ma non bastano. Mi spiego. Dopo aver fatto un film, anche bellissimo, devi anche farlo vedere, ma se ti fanno fare venti copie, distribuite in venti cinema è finita. Mentre un film, che sia dramma o commedia, deve essere visto da Bolzano a Siracusa. Dopo il finanziamento diventa quindi centrale la distribuzione.
L’uomo che verrà è stato visto ed è uno dei film italiani più premiati negli ultimi anni.
Non è andato agli Oscar perché L’uomo che verrà non è stato fatto a Roma, ma è stato girato e montato a Bologna. Una chiara scelta politica, ma non voglio entrare nella polemica anche perché stimo Giorgio Diritti, siamo molto amici, abbiamo anche fatto cinquanta puntate della trasmissione InVito a cena, girato in casa mia a Bologna, per il Gambero Rosso.
Ne L’uomo che verrà, per cui il regista si era molto documentato, sei l’attore più conosciuto, presentato nei titoli di testa come Stefano Bicocchi quasi a sottolineare la drammaticità della stessa pellicola. Nel cast anche debuttanti e superstiti…
Ma sai che le persone anziane, le comparse, avevano un atteggiamento molto cattivo nei confronti degli attori tedeschi vestiti da nazisti? Quando si andava a mangiare nessuno li voleva al tavolo.
Hai lavorato con decine di attori di diverse generazioni: Roberto Benigni, Paolo Villaggio, Carlo Monni, Novello Novelli, Athina Cenci, Alessandro Haber, Alessandro Benvenuti, Gigi Proietti, Claudio Bisio, Luca Argentero, Vincenzo Salemme, Antonio Albanese. Escludendo chi purtroppo non c’è più, hai ancora contatti con loro?
Si con tutti. Con Argentero ad esempio ho fatto tre film. Siamo amici, ma tra teatro e cinema, ci frequentiamo prevalentemente nell’ambito della produzione. Ci sentiamo, magari non regolarmente, ma non cambia l’amicizia. Rimane. Questo perché è una generazione che non va alle feste, non va a Uomini e donne, non va dalla D’Urso. È gente che lavora e se lavori, hai poco tempo per stare con gli amici. Quelli che vanno molto in televisione come ospiti lavorano poco. Poi se vai al Grande Fratello VIP sei un po’ alla canna del gas.
Tu lo faresti mai?
Per un milione di euro, si. Ma devono essere netti, esentasse. Faccio un bel Grande Fratello, non per i soldi in se, ma per poter finanziare i miei progetti, le mie produzioni.
Intervalli cinema, teatro, trasmissioni e serie TV, su tutte L’ispettore Coliandro e Giacomino e la sua domanda su Tiblisi…
Carlo Lucarelli, autore del personaggio, mi ha raccontato che un giorno stava mangiando in un ristorante e in un tavolo vicino c’era un tipo un po’ strano che parlava con un suo amico e diceva “Ma tu sei mai stato a Tiblisi? Lo sai che a Tiblisi ti regalano i kalashnikov”. Da quell’episodio è nato Giacomino e quando me lo ha proposto ho subito accettato. Molto divertente.
Ti ha pesato interpretare personaggi “speciali” come Faustino o Giacomino?
No, la mia unica paura è stata quella di evitare di prendere in giro, ma fortunatamente mi documento molto prima di fare una scelta di lavoro di questo tipo, prima di toccare questi argomenti. Cerco sempre di essere molto serio e di non andare al di sopra delle righe e provo ad interpretare qualcosa di realistico, senza spingermi mai oltre. Chiedo anche ai registi, come ai Manetti Bros. registi di Coliandro, di controllarmi. Se esagero, può succedere, mi devono “tirare le stringhe”. Così riesco a fare dei personaggi che non prendono in giro, ma mostrano un modo di essere.
In tema di TV poi c’è Vito con i Suoi per la regia di Stefano Monticelli. Come hai coinvolto i tuoi?
A casa mia la cucina è sempre stata al centro della vita quotidiana, mi è sembrato naturale coinvolgerli. All’inizio con un po’ di timore, mettevo sempre in faccia tre telecamere a mio padre e a mia madre in casa loro, poi ho visto mio padre! Sembrava che quello fosse sempre stato il suo lavoro, non ha subito il minimo scossone. Una brillantezza che pochi hanno in televisione.
Abbiamo appena finito di girare per Sky e Gambero Rosso la nuova serie, sempre diretti dal grande Stefano Monticelli.
È tornata mamma Paola?
Si, tornata. Ci siamo tutti.
Quanto la tua terra, la tua cultura, le tue origini hanno guidato la tua carriera?
Un’importanza del 98%. Un comico è perdutamente legato alla sua terra, se perde le proprie radici diventa una foglia spostata da qualsiasi parte. Tutti i grandi comici, senza per questo voler essere inserito in questa rosa, Totò, Benigni, Sordi, Bramieri, Govi, hanno tutti recitato col proprio dialetto, con la propria lingua, con quella cadenza tipica, con quella riconoscibilità che ti dà un territorio.
Hai, inoltre, un grande impegno a teatro. Hai dato vita a personaggi unici, penso all’operaio Stella Rossa, hai lavorato con grandi registi, hai recitato al fianco di numerosi artisti, per tutti cito Maria Pia Timo. Idee e progetti per il futuro?
In queste settimane sono saltate alcune date, come ovvio, ma sto lavorando ad un grande spettacolo per la stagione prossima, scritto da Francesco Freyrie e Andrea Zalone, gli autori di Maurizio Crozza. Ti do un’anteprima, si intitola “La felicità è un pacco” sottotitolo “Vita spericolata di un negoziante ai tempi di Amazon”. È un monologo in cui faccio sei personaggi, uno spettacolo già venduto al Manzoni di Milano. Inizierò le prove a settembre.
Speriamo di vederlo e di vederci presto. Grazie davvero Stefano.
Ti abbraccio forte.
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