E’ difficile pensare che, giunta ad un punto di sviluppo così complesso e articolato con l’estrinsecazione dell’autocoscienza umana e della capacità di discernimento dell’esistente, la materia possa, con la morte dell’individuo, ripiombare nell’interte, in uno stato quindi che, sempre secondo i nostri umanissimi canoni, potremmo definire “regressivo“.
Siamo – diceva Margherita Hack – veramente “figli delle stelle“, perché tutto ciò di cui siamo fatti e che, attraverso innumerevoli mutazioni biologiche e genetiche, è andato al di là della semplice composizione e scomposizione atomica, proviene da quell’inanimato che pure, seguendo delle precise leggi comportamentali dettate da rapporti di causa ed effetto che, senza ombra di dubbio, non siamo stati noi a generare, è riuscito a raggiungere un grado così elevato di sviluppo da produrre una osservazione di ciò che esiste e anche di ciò che non esiste più.
Il punto è sempre lo stesso: la morte è la fine della coscienza e della consapevolezza che abbiamo di noi stessi, quini è la conclusione di tutto quello che abbiamo rappresentato in questo mondo, oppure è la determinazione di una finitudine solamente fisica, materiale e corporale data dall’esaurimento delle funzioni biologiche, dal logoramento dei nostri organi e niente più?
Per quanto ne sappiamo, lo stato di morte è qualcosa di irreversibile. Non esiste la possibilità di riportare allo stato biochimico precedente chi ha cessato di vivere.
Mentre, diceva il mio professore di scienze, si può attraverso dispendiosi processi di trasformazione riportare il cibo cotto allo stato di precottura, perché si tratta di riavvolgere il nastro, di ripercorrere all’indietro ogni singolo passaggio che ha mutato la consistenza del prodotto (anche se, personalmente, ne dubito parecchio…), con i corpi di qualunque essere vivente questo tentativo è praticamente inutile.
Lo sappiamo senza bisogno di dimostrazioni, perché ci riguarda da deceine di migliaia di anni. La pietra che ci sta accanto continuerà ad esistere anche se non ha mai vissuto. Noi non vivremo più da un determinato momento, non esisteremo nemmeno come forma più peritura nel tempo, perché la marcescibilità delle nostre cellule è abbastanza veloce e ci trasformeremo quindi in qualcosa che rimarrà nel tutto che ci circonda.
Le nostre particelle elementari, i nostri atomi andranno a scontrarsi, giungersi e congiugersi chissà dove, chissà come. Ma la nostra coscienza, noi che siamo dentro il corpo o che siamo una caratteristica inseparabile da esso (qui sta tutta la discussione sull’anima religiosamente intesa e discussa per secoli…), rimane qualcosa di impercettibile, di fuggevole entro un perimetro della metafisica che, in quanto tale, non è afferrabile, perché di per sé, per antonomasia, è intangibile.
La psiche è senso, sensazione, sensibilità, percezione, attraverso il corpo. Quando noi diamo una carezza ad una persona, questa la riceve dalla nostra mano, ma prima di tutto siamo noi a voler fare quel gesto e non la mano di sua spontanea volontà.
Noi, attraverso la protesi dell’arto che si protende verso il viso o il corpo della persona che vogliamo toccare, siamo quell’impulso, dato dal nostro cervello in un milionesimo di secondo a quella parte del fisico che traduce il tutto materialmente e ci permette di esprimerci sensibilmente e non soltanto con una emotività immateriale e comunicabile a sguardi.
La corporeità delle emozioni è gestita da miliardi di sinapsi che sono quei neurotrasmettitori di qualunque cosa ci passi per la testa. Un crocevia fittissimo di intuizioni, di ricezione e trasmissione di informazioni che il nostro ancora molto misteriorissimo cerebro filtra, elabora, schematizza, indirizza costruendo quella straordinaria rete di autocoscienza che è lo scambio tra introspezione ed estroversione tutta umana.
Anche gli animali non umani hanno certamente un grado di elaborazione delle esperienze. Ogni essere vivente senziente (per l’appunto definito in quanto tale) ha quindi la capacità di sentire in tutto e per tutto: gioia, dolore, empatia, antipatia, felicità, ostilità, paura, ecc… Ed è per questo che dovremmo ridimensionarci e stigmatizzare quello specismo che ci fa credere, tutt’ora, di essere al di sopra di tutto e di tutti e di poter disporre a nostro piacere degli animali, della natura, del mondo nella sua interezza.
La mortalità è la dimostrazione che siamo una specie uguale alle altre nell’essere determinata entro canoni temporali abbastanza precisi: viviamo di più grazie a processi evolutivi sempre più garantiti dallo sviluppo scientifico, della scienza medica, dei passi da gigante che ha fatto nell’ultimo secolo, facendo pagare un prezzo alto alla sperimentazione sui viventi, per lo più animali non umani costretti ad essere cavie da laboratorio.
Gli illuministi, con tutte le dovute differenze tra paese e paese in cui prese piede questo vero e proprio grande fenomeno culturale, sociale, civile e politico nell’Europa settecentesca, sostenevano che il progresso scientifico non doveva entrare in contrasto con la morale comune e nemmeno con le religioni rivelate che loro detestavano o, per meglio dire, consideravano ciò che realmente sono: dei racconti fantastici, delle invenzioni narrative che pretendevano tutte e ognuna di essere l’unica vera teologia di una divinità tanto comune (come nel caso dell’Ebraismo, dell’Islam e del Cristianesimo) quanto molto, molto diversa da continente a continente.
L’idea che la morte fosse la fine dell’essenza umana, della sua particolare, specifica ed entusiasmante unicità nell’interezza osservabile del nostro Universo, partendo dalla “piccola” Terra in cui viviamo, ha ancestralmente provocato dei moti di ribellione all’inevitabile, una reazione alla rassegnazione che ciò che abbiamo creato in vita potesse sopravviverci sia per la parte materiale, case, monumenti, opere d’arte, libri, invenzioni, eccetera, sia per quella immateriale: quei nostri pensieri, quelle nostre relazioni con chi, per età, per salute, per mille altri motivi avrebbe vissuto ancora dopo la nostra fine.
E, comunque, la critica delle religioni rivelate non voleva di certo essere una forma di ateismo primordiale, di negazione aprioristica di qualunque ipotesi su dio o su un “grande spirito” (per dirla con gli indiani d’America).
Ad essere meno approssimativi e più precisi nella disamina delle alternative ai grandi culti formatisi dentro grandi centri di potere dell’asse del mondo antico (dall’Impero romano al mondo arabo e, prima ancora, nella Palestina israelitica dei cui grandi regni, stando ai ritrovamenti archeologici moderni, si hanno ben poche certezze), il naturalismo religioso è un capitolo di una teologia laica che andrebbe ampiamente riconsiderato e rivisto alla luce proprio dell’irrefrenabile progresso scientico che, purtroppo, non fa il paio con quello morale e civile.
L’idea che la morte fosse parte della vita e che, quindi, si creasse sostanzialmente una circolarità esistenziale anche nel non esistere più, nel non essere più – per quanto riguarda noi esseri senzienti – in rapporto diretto (quindi volontario) col resto dell’esistente (riducendoci, quindi, allo stato di inerzia della pietra che ci sta accanto), non era una peculiarità soltanto delle religioni rivelate che legavano il tutto ad un passaggio ultraterreno, ultradimensionale (forse) verso una prospettiva di eternità dell’anima rispetto al corpo.
Anche il deismo illuministico suggerisce una finalità per il tutto, ma sul piano di una elaborazione razionale che, tuttavia, deve riconoscere proprio razionalmente i limiti della nostra capacità di interpretazione sia di ciò che è sensibile, sia di ciò che è astatto e, pertanto, affidato in parte ad un metodo deduttivo che induce a ritenere, più che altro per esclusione, che la propria ipotesi sia quella meno assurda, quella che più si avvicina ad una riduzione progressiva delle incongruenze.
Intanto, le religioni rivelate sono esclusiviste, anche e soprattutto nella loro pretesa di universalità che, per essere realizzata, ha bisogno della conversione al culto: Cristianesimo, Islam ed Ebraismo dialogano ma si ritengono l’una nei confronti dell’altra la vera catechesi dei princìpi il cui insegnamento è la Verità (con la vu maiuscolissima) per giungere a dio, per fare la sua volontà hic et nunc.
La rivelazione che dio fa di sé stesso, secondo i canoni cristiani, islamici ed ebraici, è per un popolo che viene scelto come messaggero nei confronti degli altri dell’altissimo verbo, della legge delle leggi che è il viatico della salvezza per il raggiungimento di uno stato paradisiaco in quel mondo ultraterreno che i greci pensavano come Ade, i romani pure, e che i successivi culti hanno tratteggiato immaginificamente e tradotto mille e mille volte in campo artistico e letterario come il “paradiso“.
Dal Janna al giardino dell’Eden (sono praticamente sinonimi), la promessa di una condizione in cui ci si troverà beatamente un po’ tutti, come premio per la propria fede (quindi della propria integerrima e assoluta fedeltà), è il baricentro su cui poggia il legame tra dio e le sue creature, tra il potere che viene bendetto come forma di rappresentanza terrena dell’alta volontà e che, quindi diventa legittima autorità a cui obbedire senza farsi domande.
Il presupposto anticritico del dogmatismo fa, quindi, il suo ingresso nella storia umana nel momento in cui ogni religione opera il salto di qualità da semplice culto primitivo ed originario a sistema di potere, per il potere e diviene essa stessa l’etica fondante di nuove società, condizionandone temporalisticamente quella secolarità che sarà piegata ad una morale a cui ubbidiranno il povero e il ricco.
Con la differenza che quest’ultimo riceverà sempre un posto di privilegio in seno ai regimi più disparati: dagli imperi occidentali ai califfati mediorientali; tanto nelle repubbliche quanto nelle monarchie. Per non parlare del millenario Stato della Chiesa…
Se gli illuministi detestano ciò che nell’antichità ha condotto i popoli all’ignoranza e alla dipendenza da altre volontà, anche e soprattutto attraverso il rapporto con l’elemento religioso come mediazione tra suddito e potente, come mezzo di redarguimento delle critiche, delle ribellioni e strumento di stabilimento dell’ordine, è pure vero che – ad esempio in Voltaire – il principio dell'”assolutismo illuminato” lo si ritrova e descritto molto circostanziatamente.
Anche tra i fautori della ricerca della felicità, delle libertà civili e sociali, dell’antidogmatismo, della propagazione della cultura e della critica al diritto divino che i re si erano attribuiti, c’è una tendenza a sospettare che i popoli non siano pronti ad una sorta di autogestione delle proprie esistenze.
Si potrebbe paragonare la diffidenza che gli illuministi nutrono nei confronti della metafisica a quella che, mutatis mutandis, è una diffidenza nelle capacità di costruzione della storia da parte delle masse che giudicano ancora rozze, incolte, incapaci di essere sagge al punto da gestire le sorti di una o più nazioni. Non che avessero tutti i torti, ma di sicuro i sovrani non erano migliori interpreti di un benessere comune che era, almeno fino alle soglie delle rivoluzioni seicentesce e settecentesche (che ebbero un carattere universalistico), un concetto più che altro irriso, dileggiato e trattato alla stregua della democrazia antica.
Nessuno pensa di poter dire che, per questo, l’Illuminismo non fu un movimento culturale, sociale e politico che non fece avanzare grandi istanze liberatrici in tutta l’Europa dell’epoca. Ma, quando si indagano fenomeni così profondamente complessi, si deve tenere conto di tutte le interpretazioni, le declinazioni e le striature che hanno increspato una omogeneità di contenuti che, in quanto tale, non è sempre garanzia di coerenza.
Dopo la diffusione delle idee illuministiche, anche il rapporto degli umani con la morte cambiò radicalmente. Chi si affidava alla razionalità come la regolatrice delle nostre esistenze, non poteva fare a meno di notare che, per quanto compenetrasse tanti ambiti del vivere (e del morire), il bisogno intrinseco di domandarsi se questa esistenza avesse un senso non veniva mai meno e che, in fondo, apparteneneva ad una domanda atavica, che si perdeva nella notte dei tempi, anzi… nella loro prima alba.
Il naturalismo religioso, pertanto, ha avuto così poco successo perché non aveva le caratteristiche dogmatiche delle religioni rivelate e non metteva dei punti fermi su nessuna idea di dio, su nessun rapporto con la natura e col tutto esistente. Lasciava alla libera interpretazione di ognuno il ritenere che l’interezza dell’Universo fosse dio stesso. Oppure che non fosse così, che magari potesse (e possa) esistere un principio ordinatore da cui discendono tutte quelle leggi naturali a cui noi ci sentiamo vincolati o, per meglio dire, aderiamo istintivamente.
Sappiamo che è bene fare una cosa e che è male farne un’altra. Così anche gli animali si comportano, entro certi limiti, nel preservarsi, nel prendersi cura dei propri simili e nel fraternizzare anche con specie differenti dalle loro. C’è una conoscenza che viene prima dell’apprendimento e che è, quindi, contenuta dentro qualcosa che, giorno dopo giorno, crea quella parte di coscienza non riconducibile all’esperienza materiale delle sole relazioni sociali.
Per capire questo concetto, è sufficiente immaginarsi da soli. Senza nessuno intorno. Avremmo dei pensieri che ci deriverebbero dall’osservazione di ciò che ci circonda. E sapremmo, un po’ animalescamente (del resto siamo animali umani), che il bene corrisponde alla tutela della nostra e altrui integrità, mentre il male è dolore, sofferenza, annichilimento, destrutturazione, scomposizione e morte.
Soteneva Rousseau che oltre a coltivare la ragione bisogna anche riscoprire il cuore, i sentimenti, le emozioni. Fare, quindi, della passione uno dei centri del nostro sviluppo individuale e sociale. Perché anche il cuore ha le sue ragioni (che la ragione non conosce, avrebbe ammonito Pascal), e perché cercare una sintesi tra psiche e amore è, alla fine, un po’ la dialettica eterna del nostro riprodurci e, quindi, del vivere. Insieme. Se possibile…
MARCO SFERINI
19 novembre 2023
foto: elaborazione propria