Supponiamo che i corrotti vengano spazzati via, i partiti disciolti, le persone oneste vengano incaricate di gestire la cosa pubblica con un amplissimo mandato dei cittadini, una specie di paradiso terrestre, insomma. Cosa otterremo? «La politica smarrita tra scartoffie e ossessioni», come recitava mercoledì il titolo dell’eccellente articolo di Sandro Medici sulla tragicommedia della giunta Raggi a Roma.
Quello che sta accadendo nella capitale, infatti, è il sintomo di un problema ben più ampio e profondo dell’incapacità di Virginia Raggi di formare una squadra di governo: i pasticci nel nominare collaboratori e assessori sono certo il frutto di incapacità personale (Chiara Appendino a Torino, per il momento, se la cava benissimo) ma a monte ci sta altro, e precisamente l’idea della politica senza partiti, della democrazia elettronica, del culto dei curricula e del «merito».
Il Movimento Cinque stelle aveva, ed ha, ottime ragioni per fare dell’onestà e della competenza le sue bandiere politiche ma la realtà è che, in una democrazia rappresentativa, occorrono dei luoghi di formazione della classe dirigente, degli strumenti per far fare esperienza a chi vuole mettersi al servizio della comunità.
Strumenti che servono anche a neutralizzare chi vuole arricchirsi, chi non è leale, chi fa il contrario di ciò che i militanti gli chiedono.
Storicamente, questi strumenti sono stati i partiti: luoghi in cui l’ingegnere e l’operaio, l’intellettuale e la casalinga potevano confrontarsi e arricchirsi reciprocamente. I vecchi partiti saranno pure stati delle oligarchie ma erano comunque oligarchie frutto di una selezione che rendeva la vita difficile ai peggiori (tranne che nel Psi di Craxi) e che teneva i vertici in contatto con la base. Negli Stati uniti i notabili del partito repubblicano fanno una politica favorevole ai miliardari e contraria agli interessi della loro base da almeno 36 anni: c’è voluto del tempo ma poi i militanti hanno trovato un leader per spazzare via l’establishment. Che poi questo leader si chiami Donald Trump e sia peggio dei politicanti che vuole sostituire è un altro discorso.
Quando i partiti si dissolvono, ciò che resta sono le oligarchie di «tecnici, magistrati, avvocati e avvocaticchi, contabili, consulenti, esperti di varia caratura, nonché pensionati ringalluzziti», come scrive Sandro Medici. Ma Virginia Raggi deve rivolgersi a questo sottobosco romano perché non ha relazioni sociali, né può averle perché l’M5S non è un partito insediato nella città: sono 1.764 i militanti che hanno votato per candidarla.
Se non ci sono relazioni con i cittadini, ciò che resta sono solo le conoscenze dello studio di avvocati dove si è fatto il praticantato, le amicizie dell’università o l’aver «sentito il nome» da qualche parte. Demonizzare la politica e i partiti lascia la cosa pubblica nelle mani delle lobby, delle cordate, delle consorterie.
Quindi la vera questione non è tanto che il M5S neghi «una visione laica della politica, basata sulla separazione liberale dei poteri» come ridicolmente scrive Antonio Polito sul Corriere. È piuttosto il fatto che i Cinque Stelle non abbiano ancora capito che occorre consumare le suole delle scarpe nel rapporto con i cittadini prima di essere pronti a governare. La loro strepitosa fortuna, essere l’unica opposizione rimasta, può trasformarsi facilmente in una maledizione se non fanno un programma credibile per rispondere alla sofferenza sociale dei nostri anni (nel 2016 l’Italia continua ad avere una disoccupazione che è quasi il doppio di quella del 2007, l’11,5% contro il 6,1%).
È su una visione del mondo, su un programma articolato, e non sul semplice appello all’onestà personale, che si può governare.
Nella storia, una quantità di leader personalmente onesti, che rifuggivano dall’arricchirsi, hanno scatenato guerre, attuato genocidi, portato lutti e rovine ai loro popoli.
Certo, nella società liquida, nell’era dell’individualismo, dei tweets e dei selfies sembra quasi patetico fare appello ai vecchi partiti, ma forse non occorre resuscitare federazioni provinciali e comitati centrali. Forse ciò di cui abbiamo bisogno è di un rapporto vero tra esperti e cittadini, di uno scambio che coinvolga forze, energie, intelligenze diverse. Senza processi di partecipazione le scorciatoie non portano da nessuna parte. O, al massimo, allo studio dell’avvocato Previti.
FABRIZIO TONELLO
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