Nei primi giorni del lockdown, quando le porte delle nostre case si sono chiuse per decreto governativo, i telefoni dei centri antiviolenza sono piombati in un silenzio innaturale. Eppure era difficile credere che la violenza domestica, fenomeno di proporzioni allarmanti in Italia, fosse improvvisamente sparita. L’ipotesi, straziante, era che il lockdown avesse chiuso oltre che le porte, anche la bocca alle donne che convivono con un partner violento.
Con il passare dei giorni però la questione è emersa in superficie. Secondo le rilevazioni fatte nel periodo che va dal 2 marzo al 5 aprile, in 80 centri antiviolenza su tutto il territorio nazionale, il numero di richieste di aiuto è in realtà aumentato, se paragonato ai dati disponibili per lo stesso arco di tempo nel 2018. Infatti, come informa l’analisi diffusa della rete Dire, 2867 donne si sono rivolte ai numeri di supporto telefonico, con un incremento del 74,5% rispetto alla media. La preoccupazione però rimane, perché il dato fortemente in calo è quello dei casi nuovi, cioè delle donne che entrano in contattato con i servizi di sostegno per la prima volta, che sono solo il 28% del totale, mentre normalmente costituiscono i due terzi dei casi trattati.
«Le prime due settimane c’è stato un calo drastico delle segnalazioni. Le informazioni erano poco chiare e in molte hanno pensato che i centri avessero cessato le attività. Poi abbiamo fatto una campagna nazionale, richiamando l’attenzione dei media su questo tema, e dicendo che #noicisiamo e i telefoni hanno ricominciato a squillare» spiega Mariangela Zanni del Centro Progetti Donna di Padova.
Un’analisi a campione, fatta sui dati di 4 centri dell’Emilia Romagna (Lugo, Ferrara, Modena, Reggio Emilia) evidenzia un aumento percentuale delle richieste di ospitalità e specialmente le richieste di ospitalità avanzate in una situazione di emergenza. Il 24 marzo Elena Bonetti, delle Pari Opportunità, in accordo con Lamorgese, ministra dell’Interno, ha inviato una circolare alle prefetture con l’indicazione di individuare strutture, come ad esempio quelle alberghiere al momento in disuso, da mettere a disposizione per accogliere donne in situazioni di pericolo.
«Qui sul territorio del Veneto, non è stato avviato nessun dialogo in questo senso» racconta ancora Zanni. «Stiamo gestendo le situazioni di emergenza affittando delle case vacanza oppure, qui a Padova, pagando la stanza in un albergo sociale. Tutti i costi ricadono sui centri. Alcune donne non avendo residenza perché costrette a cambiare comune o perché arrivate in Italia da poco non hanno nemmeno accesso alle misure di sostegno economico varate dal governo». La pressione economica sui centri contro la violenza è molto alta in queste settimane.
Nonostante i 30 milioni di fondi ordinari sbloccati con un decreto del ministero il 2 aprile, e i 3 milioni aggiuntivi stanziati con il Cura Italia, ai territori non è arrivato ancora nulla, e la continuità dei servizi è garantita soprattutto grazie alle donazioni. «Facendo un calcolo sui dati del 2018, emerge che lo stato mette a disposizione circa 0,76 euro al giorno per ogni donna che si trova in un percorso di fuoriscita dalla violenza. Nel 2019 i fondi sono aumentati ma viviamo in balia dei costanti ritardi dei pagamenti» conclude Mariangela Zanni. «Alcune procure, come quella di Trento, hanno dato l’indicazione di utilizzare le ordinanze di allontamento dall’abitazione dei partner violenti, misure che esistevano già, ma che venivano poco usate» spiega Elena Biaggioni, avvocata penalista della rete Dire.
«Bisogna stare attenti però a non incentrare la comunicazione solo sui casi di violenza grave fisica. Molte donne vengono maltrattate, controllate, e insultate, prima di essere in pericolo di vita. Per questo l’attività dei centri, come punti di ascolto, è fondamentale».
SHENDI VELI
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