In una lettera del 25 gennaio 1894, Friedrich Engels scrive a Walther Borgius che «gli uomini fanno essi stessi la loro storia, ma finora non la fanno, neppure in una determinata società ben delimitata, con una volontà generale, secondo un piano di insieme». Intervengono quindi, come demiurghi inconsapevoli del moto degli eventi due attrici chiamate “necessità” e “casualità“. La prima è determinante nei confronti della seconda perché pone in essere i presupposti concreti, letteralmente “materiali“, che danno il seguito ad una serie di eventi non predeterminabili e su cui la Storia muove i suoi passi con una sorta di inconsapevolezza quasi atavica.
L’analisi di Engels prosegue sul fenomeno dei “grandi uomini“: da Cesare ad Augusto, da Cromwell a Napoleone. Ognuno di loro, è innegabile, ha fatto la Storia con la esse maiuscola di una umanità che, oggettivamente, ha subito, le scelte politiche dei condottieri, dettate – questo è il fulcro del ragionamento materialistico – da una incontrollabile eterogenesi dei fini; per cui anche quelle che ci possono sembrare essere state le più acute intuizioni e i più fervidi calcoli per ottenere questa o quella vittoria, in conclusione non si possono dire in assoluto il prodotto della sola mente umana.
Ogni scelta è il frutto di un condizionamento esterno che influisce sulle nostre volontà espresse da un sentire che si manifesta come espressione del desiderio, della voglia, della brama di potere e di controllo su una nazione che, in quanto tale, è sintesi tra territorio, organizzazione statale e popolo. Quindi la Storia, per quanto possa essere stata determinata dalle gesta dei grandi uomini e delle grandi donne del passato, è influenzata da una materialità oggettiva di condizioni pratiche, di bisogni e di situazioni in cui ci si trova a prescindere dalle proprie possibili immediate e future scelte.
E questo condizionamento è incessante, continuo, non ha soluzione di continuità. Ed è proprio nel solco di questi ragionamenti che si prova, almeno da parte del marxismo, a trovare quelle che potrebbero definirsi “leggi della necessità” che non negano il ruolo della casualità, insita nell’imprevedibilità e nella miriade di intersezione di rapporti che ogni giorno gli esseri senzienti stabiliscono fra loro e, non di meno, con il resto del mondo naturale; ma che, semmai, aggiungono a quel ruolo un connotato di protagonismo ben diverso da un metafisicamente caotico appello al “Fato” (come divinità quasi mitologica che dal passato arriva nel presente), rendendogli giustizia esattamente come parte “logica” del tutto.
La casualità quindi è casuale fino ad un limite insuperabile che le deriva dal punto di inizio in cui la necessità induce a determinate azioni. Qui il metodo metafisico lascia il posto al metodo dialettico (come scrive molto opportunamente Lenin in “Che cosa sono gli amici del popolo“, 1894). Non siamo più sul piano dell’individuazione di una fenomenologia degli eventi affidata ad empirismo tout court; così come non ci troviamo davanti ad una stanca riproposizione del teleologismo e della finalizzazione deistica del mondo e dell’Universo.
Marx scopre la legge dello sviluppo sociale e la espone in nuovo materialismo dialettico che, tuttavia, non ha la pretesa di risolvere ogni domanda che la filosofia si è posta, nei secoli dei secoli, innanzi ai mutamenti storici che, però, non sono più quindi affidabili ad un divenire vichiano che si affida ad un mero razionalismo che si compenetra con un provvidenzialismo oggi a dir poco imbarazzante. Non è un giudizio di valore, di minore o maggiore importanza di una filosofia piuttosto di un’altra: piuttosto acclarato è il presupposto oggettivo dei rapporti di forza tra le classi sociali e una dinamica dell’evoluzione moderna affidata alla struttura economica che detta tempi e modi ad ogni ambito sovrastrutturale.
Quando Giambattista Vico descrive la Storia come l’unica vera scienza, perché interamente prodotta dall’umanità, lo fa assumendo una postura critica nei confronti dell’altra scienza: quella della natura. La sua critica al cartesianesimo è, in sostanza, una espressione dubitativa in merito alle certezze assolute che avevano messo, se non da parte, almeno nell’angolo un umanesimo troppo intriso di metafisica e ancora davvero tanto influenzabile dai presupposti ecclesiastici del creazionismo.
Ma sarebbe un errore clamoroso spacciare Vico come il filosofo che pretende di retrocedere al pensiero del passato e far fare un salto indietro al razionalismo e agli spiriti scientifici dell’epoca. In realtà, quasi premeditando una sorta di rapporto dialettico nelle fasi della Storia, l’espressione della sua famosa frase “verum ipsum factum” (quindi la coincidenza tra ciò che è vero e ciò che viene fatto), riconosce all’essere umano – e non in prima istanza alla divinità – la sua sorte “storica” tanto del passato quanto quella che egli va impostando nel presente che diviene nell’immediatezza appena dopo sé stessa, di secondo in secondo, il futuro.
Quella che Lenin, dagli studi marxisti ed engelsiani, traduce come presa d’atto dell'”ordine esistente“, altro non è se non la constatazione che tutta una serie di fenomeni avvengono e si solidificano nella loro permanenza temporale entro il contesto della società, come elementi congiunturali che, tuttavia, non sono inamovibili; perché a quell’ordine appena citato corrisponde la necessità – almeno per chi vuole capovolgere “lo stato di cose presente” – della edificazione di un “ordine nuovo” della società che si configuri come elemento di travolgente rottura rispetto al passato.
Il ruolo filologico che consiste nella raccolta delle informazioni che descrivono i fatti nei luoghi e nei tempi, forse tende a prevalere rispetto a quello filosofico. È certamente un cambio di passo rispetto a due secoli e mezzo prima, quando Vico univa filologia e filosofia nel tentativo di attribuire al procedere della Storia un senso razionale che non fosse in contrapposizione con la Provvidenza propriamente detta e intesa in quanto espressione della volontà ultraterrena e, quindi, sostitutiva del binomio “necessità – casualità” di cui si scriveva all’inizio.
L’eternità di una “storia ideale“, così come interpretata da Vico, in quanto espressione di una sorta di “teologia ragionata” sulla quale si stenderebbe il lungo drappo della successione degli eventi umani, non è, nonostante lo si possa un po’ malevolmente supporre (quindi, più che altro, “presupporre“), una automatica e maccanicistica esclusione del libero arbitrio degli esseri razionali e di quelli senzienti nella più vasta gamma del regno animale. La civilizzazione – per il filosofo partenopeo – è da qui che prende il suo ripetuto, continuo spunto di esponenzializzazione.
Dell’eterogenesi dei fini già citata, Vico fa uno strumento della Provvidenza per indirizzare le azioni umane e, quindi, la razionalità ha una capacità di intervento e di influenza nelle medesime limitatamente al perimetro stabilito dalla divinità. La libertà di ognuno e di tutti, dunque, è realizzabile nel contesto di una concezione ovviamente non materialistica, ma duale nel suo essere il prodotto tanto della volontà umana mediante la Ragione quanto di quella di Dio che è ispirazione anche razionale, poiché siamo sempre entro il perimetro della creazione e non della presa d’atto della materia in quanto tale priva, quindi, di una ultima spiegazione, affidata alla incessante ricerca gnoseologica.
Risulta chiaro che la paternità dello storicismo moderno è indubbiamente attribuibile e riconoscibile a Vico; ma l’indagine moderna sulla Storia, sulle cause che determinano i processi umani, animali ed anche, in parte naturali, trova una sua più razionale, necessaria, causale concretazione non nel determinismo deistico associato alla parziale libera volontà umana, bensì nella constatazione evidente dei rapporti di forza propri di un contesto economico che è, quindi, contesto sociale, culturale e politico.
Tuttavia, fatte tutte le debite differenze tra storicismo vichiano e storicismo dialettico materialistico marxiano, come al filosofo napoletano va riconosciuto lo sforzo fatto nell’avvicinare ragione e fede, al Moro va altrettanto dato riconoscimento del fatto che non sottovalutò mai la componente emotiva nelle azioni umane e che, quindi, attribuì ai sentimenti un ruolo negli stessi rapporti tra singoli nello sviluppo della Storia e del presente. Non esiste nemmeno una lotta tra struttura e sovrastruttura in questo caso, ma una presa d’atto che all’origine dei sentimenti morali e, pertanto, di una più generale concezione etica della società, vi sono delle necessità materiali.
La casualità in questo frangente è spinta da un interesse particolare che prevale su quello sociale e nei confronti del quale una fetta di mondo intellettuale, giornalistico e scolastico si sente afferente anche per pulsione emotiva ma, soprattutto, per opportunismo. Quindi, se ne deduce abbastanza facilmente, che la volontà umana viene condizionata dai rapporti sociali necessari al sostentamento di un potere di classe che, quindi, è uno dei più importanti moti della Storia. Nessuna influenza divina, bensì crudi e reali incontri fra oggettività che vengono spacciati spesso per quell'”invisibilità” che – in sostituzione di Dio – governerebbe i processi storici.
Ritenere che il tutto in cui viviamo (e dal quale siamo parimenti vissuti) sia attribuibile ad una volontà ultraterrena, ad una ragione metafisica (che pare quasi un ossimoro…) e non sia il frutto non di quella che Marx chiama l'”effettiva natura della situazioni“, è un atto di fede che, grazie a Giambattista Vico, può trovare un principio di non contraddizione nel dirsi costantemente coeva e compenetrata dalla realizzazione dell’oggettività della volontà umana azione per azione, pur entro i limiti dell’altra volontà: quella per l’appunto divina.
La modernità di Vico sta nell’aver riconosciuto e fatto riconoscere a tutte e tutti che la Storia non procede per una linearità indefessa, frutto di una unica disposizione deistica; tutt’altro: ha alti e bassi, fasi in cui la ragione prevale e altre in cui prevale il dubbio, il non vero, il falso addirittura e in cui, quindi, ciò che prima era può, immediatamente dopo, non essere più. Lo sviluppo della civiltà, che noi diamo per scontato essere un concetto nel suo insieme positivo, non è per niente garantito. Per Marx ed Engels si chiamava dialettica storica, materialismo dialettico, per Vico portava il celebre epiteto di “corsi e ricorsi storici”.
Entrambe, le pure temporalmente distanti filosofie di una modernità che dal secolo dei Lumi passava a quelli dell’industrializzazione a tappe forzate, sono pietre miliari di una filosofia della Storia e di una critica della stessa da cui è impossibile prescindere. Lo storicismo vichiano è un viatico importantissimo che fonda un modo nuovo di leggere i fatti; così come il marxismo scoprirà le leggi di sviluppo della società nell’aver disarticolato il sistema di produzione capitalistico.
MARCO SFERINI
17 novembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria