Viaggio in Mongolia

Diversamente da Strabone, Willem van Ruysbroeck, comunemente noto in Italia come Guglielmo di Rubruk, ci racconta, al pari di Marco Polo, un viaggio. Ma gli elementi geografici, propriamente fisici...

Diversamente da Strabone, Willem van Ruysbroeck, comunemente noto in Italia come Guglielmo di Rubruk, ci racconta, al pari di Marco Polo, un viaggio. Ma gli elementi geografici, propriamente fisici dei territori, sono inclusi in una descrizione di lande inesplorate o, comunque, molto poco frequentate dalle carovane occidentali: stiamo parlando della Mongolia, dell’Asia misconosciuta, del mistero che avvolge leggende davvero dal sapore mitologizzante come il Regno cristiano del Prete Gianni, la cui origine si perde nei racconti parsifaliani.

Guglielmo non è, quindi, quel periageta che si potrebbe pensare; nemmeno quando torna ad essere un lettore biblico, un insegnante di teologia, un dotto sapiente che, in particolare dopo il suo viaggio nelle terre di quelli che gli europei, un po’ troppo genericamente, chiamavano “Tartari“, riduce la scrittura del suo “Itinerarium” ad una mera descrizione di luoghi, usi, costumi e credenze. C’è esattamente all’inizio del suo viaggio un comandamento regale, imposto da Luigi IX di Francia, che gli impone una missione: evangelizzare e convertire i mongoli.

Pubblicato in Italia da Mondadori, con la preziosa collaborazione della Fondazione “Lorenzo Valla”, l'”Itinerarium” porta il titolo di “Viaggio in Mongolia” (2011) e giganteggia con “Il Milione” di messer Marco Polo e dello scrittore Rustichello da Pisa. Il viaggio di Guglielmo, a paragone di quello del mercante veneziano, appare (ed effettivamente è) più dinamico, veloce: percorsi di migliaia di chilometri vengono fatti nel giro di pochi mesi. Da Costantinopoli alle terre del Gran Khanato dell’Orda d’Oro i salvacondotti dei governatori mongoli aprono la via ad una carovana apparentemente raccogliticcia ed anche fragile.

Il francescano porta con sé le lettere di re Luigi e dell’imperatore latino d’Oriente. Al contempo emissario e religioso, missionario multilaterale, ha avuto nel corso dei secoli la sfortuna di un oblio probabilmente nemmeno voluto, ma comunque subìto. Eppure il suo viaggio è per raccolta di informazioni pari a quello dei Polo e non ha nulla da invidiare ad altre spedizioni anche più moderne che hanno raggiunto quello che un giorno sarebbe stato chiamato “Catai“. Nonostante ciò, una certa favolistica tutt’altro che antistorica o revisionistica, si è impadronita della leggenda veneziana e ha trascurato le imprese del frate fiammingo.

Che ciò sia ascrivibile all’italianità di ser Marco piuttosto che all’estraneità di Guglielmo è, e rimane, soltanto una mera ipotesi, una incauta illazione quasi divertente in questo gioco magico di raffronti di narrazioni veramente affascinanti. Perché è sufficiente calarsi nel contesto del Duecento per rendersi conto che al di là dei confini conosciuti, dalle steppe asiatiche del nord ai deserti del sud fino alla Persia, si aveva una qualche vaga idea di cosa ci si potesse attendere oltre i confini dell’Indo. Alessandro il Grande, spinto dalle proteste del suo esercito, timoroso di varcare l’ignoto e di morire di inedia, era stato costretto a tornare verso Occidente.

Ma – ce lo racconta lo stesso Guglielmo in alcune parti dei quaranta capitoli del suo libro (che, in realtà, doveva essere una descrizione particolareggiata del viaggio per il re di Francia tornato in patria dalle Terresante) – anche i mongoli si domandano cosa vi sia nei punti più remoti di una Europa che hanno conquistato fino alle lande ungheresi, a quelle regioni che oggi potremmo denominare come ucraine, ma che non hanno mai completamente potuto conoscere. Due secoli dopo, inviato in missione dagli imperatori Yongle e Xuanzong, l’eunuco Zheng He si spingerà fino alle coste della penisola arabica.

Non per la “via della seta“, frequentata da carovane che avanti e indietro stabiliscono una rete commerciale che si fa asse del mondo antico tra Occidente ed Oriente, ma per mare. Non sarà il tentativo di convertire alle religioni cinesi i popoli indiani, arabi e africani. Non sarà neppure un tentativo di espansione economica o militare. Ma, per quanto possa sembrare paradossale, sarà più di tutto la voglia di una contaminazione culturale a portare le navi di Nanchino fino alle coste di Mogadiscio o di Aden. La Cina è, per così dire, “imperialista” entro la sfera di influenza in cui può oggettivamente muovere le sue truppe e le sue flotte: li Mare cinese meridionale, quello del Giappone e i territori dei khan.

Ma sarà l’Europa a conquistare il mondo. Almeno fino alla fine del Novecento. Il secolo e il millennio che da ventiquattro anni si sono aperti lasciano intravedere nuovi sviluppi che, soprattutto a viaggiatori ed esploratori come Guglielmo e i Polo, sarebbero indubbiamente interessati notevolmente. Nell'”Itinerarium“, infatti, alle minuziose descrizioni dei usi e dei costumi dei mongoli, si accompagna tutta una serie di considerazioni che spaziano dalla filolofia alla filosofia, dall’arte alla letteratura, dalla preservazione dei mestieri antichi fino alle dispute teologiche con i monaci buddisti.

Non c’è un capitolo del suo resoconto che sia, oggettivamente, meno rilevante rispetto ad altri: ogni incontro che Guglielmo fa è accompagnato da una propensione benevola a quella conoscenza che avrebbe spinto anche Zheng He a intrattenere rapporti con i popoli persiani, arabi e africani: di tutto questo se ha traccia proprio nella stessa cultura cinese, nella produzione di ricche porcellane molto rifinite in cui si tramandano le imprese del navigatore, un po’ come sulle colonne e sugli archi romani si scolpivano quelle delle armate dei cesari. Se grazie al frate francescano abbiamo la più interessante fonte di conoscenza della vita dei popoli asiatici del Medioevo intero, di lui sappiamo invece poco.

O, quanto meno, sappiamo solo ciò che possiamo evincere da poche fonti esterne e, con più fortuna, da ciò che egli stesso dice di sé – seppure indirettamente – nell'”Itinerarium“: il status di religioso lo porta, ovviamente, a privilegiare tutte le dispute dell’epoca che si incentrano sulla superiorità delle civiltà cristiane rispetto a quelle dei miscredenti. D’altro canto, i maomettani si pronunciano tanto teologicamente quanto, in parte, anche teleologicamente nell’esatto contrario: la verità è automaticamente razionalità, perché la ragione è creazione divina e un unico dio ha affidato ad un unico popolo il compito della divulgazione del vero.

Di queste affermazioni e confutazioni si trova ampio riferimento nelle dispute che Guglielmo ha con i monaci buddisti, ma non di meno con gli stessi governatori e sovrani orientali. Guglielmo, quindi, ci parla di sé stesso attraverso i paragoni che fa con un mondo che gli appare, subito, come qualcosa di tremendamente sconosciuto. Le prime centinaia di chilometri che fa verso le rive del Caspio lo atterriscono. Ma è una paura controllata, gestita da una mente disponibile all’incontro e al confronto e che annota tutto con grande accuratezza: possiamo persino evincere dalla sua scrittura quali sono i capitoli scritti nelle soste e quali durante il viaggio stesso.

Alcuni, infatti, sono molto più circostanziatamente, altri, per così dire, currenti calamo. I suoi compagni di viaggio sono il confratello Bartolomeo da Cremona (piuttosto malaticcio, diversamente da Guglielmo che – a quanto si legge – aveva un fisico robusto e resistente alle asperità), un piuttosto giovane chierico di nome Gosset e un traduttore ed interprete di cui non conosciamo il nome. Viene definito come “homo Dei“. Per non rimanere estranei alle tradizioni schiavistiche dell’epoca, c’è pure un servo acquistato a Costantinopoli, Nicola. Dal maggio al settembre del 1253 questa scorta gli verrà progressivamente meno e l’ultimo tratto verso la capitale mongola Karakorum lo farà praticamente in solitaria.

Potrebbe sembrare un destino beffardo, ma giunto alla presenza dell’imperatore Munke, consegnerà il dispaccio del re di Francia Luigi IX che domanda la conversione del popolo asiatico al Cristianesimo e ne riceverà per risposta non un diniego esplicito bensì la volontà di chiedere ai francesi e ai cristiani in senso lato di sottomettersi al potere mongolo. Due mondi, per una certa fortuna, che non potendo venire direttamente a confronto a metà strada nelle steppe asiatiche, rimarranno lontani ancora per molto tempo, evitando carneficine ulteriori, oltre a quelle già perpetrate in Ungheria, nei Balcani e nella Terrasanta.

Se si prova a fare un bilancio missionario del viaggio di Guglielmo, se ne ricava un ben magro risultato: le conversioni si contano sulle dita di due mani, ma molto più interessante – come abbiamo cercato di evidenziare fino a qui – è il valore che ha il contatto tra due civiltà che si conoscono per interposti commerci ma non sono mai entrate in contatto per confini contesi, per politiche espansioniste. Le enormi distanze, che allora erano tali e avevano un ruolo di ostacolo pratico nei tentativi imperialisti di domini di territori praticamente sconosciuti (da entrambe le parti), sono state una barriera a volte pure confortevole per secoli e secoli.

L’impero mongolo, comunque, rimane per estensione il più vasto mai conosciuto nella Storia dell’umanità. I fasti delle conquiste di Gengis Khan non si ripeteranno oltre. Ogni civiltà conosce una fase di ascesa, una di mantenimento delle proprie conquiste e dello splendore che ne consegue, e poi un declino inevitabile che è indotto ed accompagnato da una serie di mutamenti economici influenzati dalle scoperte e da una sempre maggiore globalizzazione dei commerci e degli scambi interculturali.

L'”Itinerarium” del frate francescano, ligio alla regola ma indulgente verso sé stesso per poter sopravvivere e continuare il viaggio, così da indossare delle scarpe per evitare di perdere i piedi a causa dei percorsi nel gelo della neve, raccoglie una miniera di informazioni che hanno consentito agli storici di potersi formare, insieme ai resoconti degli altri esploratori, una sufficientemente chiara visione dell’esistenza dei popoli mongoli: dalla vita singola e familiare a quella collettiva, popolare e quasi “nazionale“.

Vale la pena leggere questa importante testimonianza: per viaggiare insieme a Guglielmo, stabilendo anche un paragone tra medievalità del mondo occidentale, sviluppi orientali dell’ieri e dell’oggi; ma soprattutto per assaporare il gusto della cronaca dell’epoca. Della testimonianza oculare che diviene epistola regale e che preserva il suo carattere di racconto e memoria. Guglielmo farà una copia dell'”Itinerarium“, con correzioni e rivisitazioni anche linguistiche. In particolare di un latino leggermente francesizzato. Grazie a questa riscrittura oggi possiamo ancora viaggiare in Mongolia come se ci trovassimo nel 1253…

VIAGGIO IN MONGOLIA
GUGLIELMO DI RUBRUK
A CURA DI PAOLO CHIESA
ARNOLDO MONDADORI EDITORE (2011)
€ 30,00

MARCO SFERINI

18 settembre 2024

foto: particolare della copertina del libro


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