Ricordo di avere letto nell'”Intervista sul potere” a Luciano Canfora (ed. Laterza, a cura di Antonio Carioti) un passaggio in cui il grande filologo classico, citando lo storico francese Fernand Braudel, afferma che in determinati attimi e momenti della storia tutto porterebbe a pensare che si sta andando verso un sicuro approdo di un certo tipo: ad esempio una guerra, una catastrofe; ed, invece, accade l’esatto opposto.
Il riferimento era al periodo immediatamente precedente la Prima guerra mondiale quando si riteneva ormai vicino l’avvento del socialismo in Europa e, smentendo tutte queste sicurissime previsioni, si scatenò di contro un conflitto che accelerò la trasformazione sociale non nel Vecchio Continente, ma ai suoi confini più remoti, in un paese lontano, ancora medioevale.
E’ un po’ quanto accade in queste ore attraverso le fonti informative repentine, velocissime che abbiamo e che ci portano a non riflettere più attentamente sulle dinamiche economiche, sociali e politiche che si intersecano, ma a scrivere piuttosto su Facebook la nostra prima ossessionante opinione per provarla a fare diventare “senso comune”, di rimbalzo in rimbalzo.
Lo scontro da informazione e verità non è mai stato così dicotomico perché, oltre alla propaganda di Stato che è la necessaria disinformazione che ogni potere mette in campo quando deve gestire una fase di crisi, trasformando così le notizia in una guerra guerreggiata di parole a volte esplicitamente false, altre volte invece volutamente criptate e nascoste in codici degni di “Radio Londra”, oggi la generazione di un convincimento globale è elemento di condizionamento dei mercati, di fluttuazione delle borse e, quindi, di ovvio, immancabile meccanicistico risvolto sul piano della strategia di medio e lungo termine nel posizionamento delle potenze nello scacchiere globale.
Tutto viene attratto dal magnete dell’interesse economico, gestito sempre e soltanto sulla base di un suprematismo commerciale e borsistico che trova ancora una volta la sua longa manus nel bellicismo.
A partire dagli anni ’90, dalle prime guerre del Golfo, finendo oggi alla guerra mediorientale al Daesh e ad Assad, ai posizionamenti strategici delle portaerei americane vicino alla Corea del Nord, la ridefinizione dei confini delle aree di influenza economica delle potenze rimaste sul campo mondial dopo la fine della Guerra fredda è stata la motivazione prevalente, se non unica, che ha fatto scatenare conflitti in ogni angolo del pianeta.
Era dai tempi della guerra del Vietnam che gli Stati Uniti d’America non avevano modo di muoversi in una fase di espansione imperialistica, quindi di estensione del loro potere prettamente finanziario, industriale.
Il completamento di questa fase sembra a portata di mano con l'”Era Trump”, con l’affermazione politica di una linea presidenziale che in patria è autarchicamente protezionistica e che solamente in queste ultime settimane ha svelato parte delle proprie intenzioni in materia di politica estera.
Per dirla alla Canfora-Braudel, siamo davvero alle soglie di un alzamento della colonnina di mercurio del termometro dell’allarme mondiale in materia di scontro totale?
Difficile poterlo affermare con qualche certezza: il ginepraio siriano non concede grandi spazi in tal senso. Tutto sembra restringersi in un fazzolettino di terra arida e desertica, privata di ogni sua risorsa, sotto la militarizzazione di numerose potenze, preda del terrorismo sia di Al Qaeda sia del Daesh, con influenze esterne sempre più pressanti ai confini diretti della Siria.
Che quest’ultima sia la cartina di tornasole esclusiva su cui fondare una qualche certezza in merito ad un innalzamento del livello di surriscaldamento dei motori nucleari di missili atomici e di testate di chissà quale genere, è veramente poco dimostrabile.
Certo è che, in queste ultime settimane, una rielaborazione dei piani di attacco e di ridispiegamento delle forze Usa nei mari e negli oceani si è avvertito. Dunque, qualcosa si muove. Ma non è affatto detto che si tratti di ciò che le televisioni, i grandi “mass media”, i giornali e Internet vogliono portarci a pensare per avere ancora più paura, per provare ancora più diffidenza e odio verso le isole migratorie che approdano sulle coste italiche e sulle altre coste d’Europa.
L’incertezza rende sempre meglio governabile un mondo dove si può evitare che i poveri prendano coscienza e si uniscano in un grande movimento per la pace, per il pane, per la libertà dai poteri costituiti su montagne di apparenze.
L’incertezza rimane la grande parola del nostro tempo. La certezza, che dovrebbe invece esistere, è l’unica grande incostante che viviamo. Ciò che dovremmo conoscere e sapere “per certo” si rivela novanta volte su cento falso; ciò che dovremmo evitare, in quanto non credibile, diviene invece “opinione pubblica”.
Ancora una volta tutto è capovolto.
MARCO SFERINI
11 aprile 2017
foto tratta da Pixabay