Vent’anni di “ambiente svenduto” a Taranto…

Questa è la storia di quattro capre e due pecore che pascolavano nei campi di Puglia, vicino ad un grande stabilimento dove si levavano grandi fumi in aria, dove...

Questa è la storia di quattro capre e due pecore che pascolavano nei campi di Puglia, vicino ad un grande stabilimento dove si levavano grandi fumi in aria, dove il fuoco era incandescente ad ogni ora, dove si materializzava nel ferro che colava in grandi recipienti che lo riversavano in stampi di ogni tipo.

Questa è la storia di qualche litro di latte fatto produrre a quelle povere pecore e capre, diventato formaggio e venduto al mercato. Il sapore, tutto sommato, era buono e non guastava l’equilibrio del palato. Difficile poter sapere cosa vi fosse fin dentro ad ogni più piccola molecola di quello che è il più antico prodotto dal tempo delle transumanze. Così descrivono il pecorino pugliese i siti turistici, quelli dei comuni e delle loro pro-loco. Eppure in quella eccellenza culinaria, si è nascosto un terribile segreto, scoperto da PeaceLink nel 2008.

Una indagine che fa scoprire che in quella forma di cacio non c’è solo formaggio ma anche un bel po’ di diossine, furani e PCB. Tutta roba altamente cancerogena (negli indici tecnici è a livello 1 della scala IARC), che esula dalla produzione casearia locale, biologica magari, apparentemente sana e a chilometro zero. Non è colpa di chi fa quei formaggi (…e comunque una bella dieta vegetariana e magari anche un po’ vegana non fa affatto male… a prescindere, come avrebbe detto Totò); tanto meno è colpa delle pecore e delle capre. E non si può nemmeno dare una responsabilità all’erba e al suolo che la fa nascere e crescere.

Non è colpa della pioggia e dell’aria, nemmeno del sole. Ma è colpa invece, in questa “fiera dell’Est” alla rovescia, dell’uomo, del produttore di acciaio, dell’inquinatore che si ostina ad affermare che tutto va bene, madama la marchesa e pure signor conte. L’ILVA di Taranto ha prodotto elementi altamente cancerogeni, dispersi ovunque nell’aria, nei terreni e nei polmoni di tanta gente, in grandi quantità da tanto, da troppo tempo. Essendo un impianto tra i più grandi in Europa in quanto a “sinterizzazione” di diossina, si comprenderà l’impatto violento che ha avuto la produzione dell’acciaio sull’intera area salentina.

Non gestita secondo le minime prescrizioni di legge e, per questo, secondo i periti della Procura della Repubblica causa di “eventi di malattie e morte” tra la popolazione, la fabbrica è divenuta un potente nemico della salute di tutti gli esseri viventi: ecosistema, animali, esseri umani. Il maxi-processo che si è concluso proprio poche ore fa, ha visto coinvolti 47 imputati per reati di “disastro ambientale“: 400 anni di carcere nella richiesta della Procura per un dibattimento lungo, annoso, che segue ad una indagine meticolosa e particolareggiata intitolata “Ambiente svenduto“.

Le accuse, del resto, erano e rimangono pesantissime: associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, avvelenamento di sostanze alimentari, corruzioni in atti giudiziari, omicidio colposo. Da far tremare le vene ai polsi, se si pensa che ad ogni singolo capo di imputazione corrispondono effetti davvero devastanti su uno dei territori più belli d’Italia, su una popolazione che ha subito tutto questo, inerme, priva di difese all’inizio, che si è radunata in comitati, associazioni, supportati da un giornalismo coraggioso di inchiesta, da una vera e propria lotta per trovare una giustizia che mettesse la parola fine ad un grande omicidio di massa, ad una violenza continuata nei confronti dell’ambiente.

La parola fine forse ancora non è arrivata, ma la sentenza di primo grado fa ben sperare in quanto a riconoscimento delle responsabilità criminali che sono emerse e che la Procura ha definito tali nella gestione quasi ventennale (1995 – 2013) della più grande fabbrica siderurgica d’Italia e d’Europa. Vent’anni di carcere per i proprietari, pene simili per i dirigenti, minori per chi rappresentava allora politicamente i cittadini nelle istituzioni regionali e provinciali. Si tratta di una sentenza emblatica, storica per certi versi: dichiara che nessuno può più impunemente abusare sia del lavoro e della salute degli operai, sia di quella dei cittadini che sono morti a centinaia, forse a migliaia nel corso degli anni. La diffusione anomala di un gran numero di tumori infantili è l’altra immagine drammatica di questa storia ignobile.

Una storia che non è separabile dalle tante altre vicende che sono regolate esclusivamente dalla variabile del profitto a tutti i costi, da un capitalismo che da a-morale diventa im-morale, quindi privo di qualunque alibi datogli dai soloni del liberalismo convertitosi al liberismo sfranto. Criminali sono le persone che ricoprono ruoli di classe facendoli uscire dalle “normali” direttrici delle vie del mercato, trasformandoli e trasformandosi in senza-scrupoli-alcuni, disumanizzandosi, alienandosi da qualunque contesto sociale, civile, etico e civico.

Questa è una storia di capre, pecore, formaggi, fumi che si alzano dal più grande camino di agglomerazione che esiste nel Vecchio Continente: 212 metri di altezza e un nome anonimo: E-312. Una sigla che finisce per somigliare ad una etichetta di morte messa su quanto di più naturale e comune vi fosse nella vita di tutti i giorni dei tarantini e dei pugliesi. Ma non solo… Perché quella diossina, quei furani, quel PCB entrando nello stomaco dei poveri animali costretti a fare latte, sono penetrati nei prodotti di una catena alimentare che non è rimasta nei confini della sola Puglia. Sono pregi (pochi) e difetti (molti) della circolazione delle merci. Chissà dove si sarà andata a ficcare quella mistura di cancerogenicità… Magari l’abbiamo assaggiata pure noi. Forse non succederà niente, forse sì.

Gli effetti si vedranno ancora a lungo. E non solo dal terreno al latte, ai formaggi… Perché questa è una storia di bestiole che pascolano attorno all’ILVA di Taranto, dove tutto intorno è inquinamento consapevole e recidivo. Nel nome del profitto, si intende. Ma è anche una storia di cozze, di mare e di onde dove la diossina penetra e rimane. Oltre i limiti di legge che, di per sé, sono già abbastanza patetici, perché autorizzano ciò che invece andrebbe proibito. Fino a quella asticella del consentito il rischio di nocività per ambiente, animali ed umani è basso, ma non certo inesistente. E’ la tollerabilità, l’accettazione di quel tot di inquinamento di cui ci dobbiamo far carico singolarmente e socialmente. Se lo dice la legge…

Ma anche nelle cozze (e quindi nel mare) i livelli sono intollerabili: ne nasce una inchiesta parallela che finisce per essere materia probante a favore delle tesi della Procura che lavora sul rapporto tra causa ed effetto, sempre più stretto, sempre più evidente tra la produzione industriale dell’acciaio e i casi di malattia e di morte che aumentano esponenzialmente tra la popolazione.

La grande fabbrica si estende su 15 milioni di metri quadrati di superficie. Vi lavorano quasi 11.000 operai che con le loro braccia trasformano ogni anno in merci oltre 20 milioni di tonnellate di materie prime. Numeri da capogiro che hanno permesso il ricatto occupazionale, la frapposizione tra questione sociale e questione ambientale, tentando di distrarre la lotta unitaria per un lavoro decente in condizioni di vita esterne alla fabbrica altrettanto tali. Per tutto: operai e cittadini che guardavano ogni giorno all’ILVA non più come ad un motore di sviluppo, ad una grande azienda, unica in Europa, ma come ad un opificio dispensatore di lutti e devastazioni.

190 km di nastri trasportatori ogni giorno distribuivano il coke nei vari reparti di produzione: verso 5 altiforni, verso 5 colate continue, verso 2 treni di laminazione a caldo per nastri e 1 per lamine, più 1 laminatoio a freddo. L’ “area a caldo” è al centro della questione ambientale e, quindi, di quella processuale: la produzione del carbon coke permette di arrivare alla ghisa e da questa all’acciaio in veri e propri lingotti (chiamati “bramme“). Fin qui la fase “calda” della produzione della grande fabbrica. La sezione “a freddo” dell’ILVA, invece, è tutta di trasformazione dell’elaborazione della materia prima in forme molto diverse fra loro: laminati piani, tubi. Come è evidente, la parte inquinante dello stabilimento è quella a caldo, dove le varie fasi di trasformazione del coke fanno emettere fumi e sostanze che si dissolvono nell’aria. Piegare l’acciaio, da questo punto di vista, è pericoloso solo se si trascura pure la sicurezza sul posto di lavoro ma, almeno, non inquina.

La zona a caldo della grande fabbrica ora aspetta anche lei una sentenza: aspetta che i giudici dicano se rimarrà sotto sequestro o se potrà riprendere a lavorare nelle compatibilità di una decisione della magistratura che dovrà tenere conto del processo appena conclusosi, dopo 9 lunghi anni.

Intanto resta tutto intorno il freddo che passa sulla pelle di chi ha vissuto – ed è sopravvissuto – nel ventennio del disastro ambientale prodotto dall’ILVA. Resta alla Repubblica, nel giorno del suo 75° compleanno un motivo in più di riflessione per capire se davvero quel lavoro, quel capitalismo, quel mercato, quel profitto sono compatibili con quella vita che auspicata dai Costituenti, scritta nella Carta del 1948 e frutto sempre di compromissioni che hanno distrutto l’anima dei compromessi, fatto deperire i diritti sociali, disarcionato qualunque diritto civile dal posto che gli spetta.

Il capitalismo non è compatibile con l’umanità e con tutto ciò che ne deriva: ambiente, salute, vita quotidiana. Il capitalismo è criminale e sarebbe bene ricordarselo ogni tanto. Soprattutto nei giorni comandati di festa. Viva la Repubblica…

MARCO SFERINI

1° giugno 2021

foto: screenshot

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