Il problema è diventato tale per un surriscaldamento delle coscienze dei cittadini causato dal fuoco lento, ma inesorabile, della giustezza del dubbio trasformata in un incandescente e incontrollato fervore paranoico.
Mi riferisco alla vicenda dei vaccini e all’obbligo introdotto dal governo italiano di mettere come porta di accesso agli asili la imprescindibile e non aggirabile soglia di dodici iniezioni.
Oltre alla protezione da Difterite, Epatite B, Poliomielite e Tetano, i bambini dovranno essere vaccinati anche per il Morbillo, la Pertosse, Varicella, Meningococco B, eccetera, eccetera…
Occorrerebbero le competenze anzitutto mediche per potersi esprimere sulla necessità, quindi sulla obbligatorietà conseguente, di essere vaccinati ad esempio contro malattie che, posso dirlo avendo superato l’età scolastica da molti anni…, “ai miei tempi” venivano invece vissute come uno “sfogo naturale”: Pertosse, Morbillo, Scarlattina, Varicella,,, erano tutte malattie infantili dalle quali si doveva in qualche modo transitare come percorso di crescita di una autoimmunità che non aveva bisogno delle vaccinazioni per essere creata.
Personalmente ho sperimentato Pertosse e Varicella: le altre, compresa la celebre “quinta malattia”, me le sono risparmiate. Era una noia tossire e avere la gola arrossata o grattarsi le pustole rosse della pelle che spuntavano dappertutto quando ti beccavi la Varicella…
La scienza progredisce e, indubbiamente, se si vuole migliorare la salute dei cittadini è bene prevenire piuttosto che curare.
E qui le scuole di pensiero e di interpretazione sono molte: c’è chi teme lo sfruttamento dei corpi dei bambini come cavie da laboratorio con l’inoculamento dei vaccini; c’è chi dietro ogni proposta intravede il profitto delle case farmaceutiche e dei laboratori scientifici che producono tutto ciò; c’è chi, poi, come me pensa che la verità stia nel mezzo e che, purtroppo, non sempre il “medio” sia sede della “virtus“…
Ricordo una intervista a Albert Sabin, il grande virologo polacco – statunitense che scoprì il vaccino antipolio, in cui affermò testualmente: «Non dobbiamo morire in maniera troppo miserabile. La medicina deve impegnarsi perché la gente, arrivata a una certa età, possa coricarsi e morire nel sonno senza soffrire.».
Questo principio mi sembra eticamente e scientificamente corretto: tutto il lavoro del medico deve essere volto al miglioramento della vita, al debellamento delle malattie, alla continua ricerca non della perfezione umana nella complessità a volte impenetrabile dell’organismo vivente che siamo, ma nella costante unità tra voglia di conoscere, di capire, di sviscerare i dubbi e, al contempo, garantire il meno dolore possibile ad ogni essere vivente.
Per questo, oggi, nessuno si sognerebbe di dire di no alla vaccinazione dei propri figli contro il Tetano: chi ha potuto vedere il tremore e gli spasmi di un ragazzo infettatosi con un chiodo arrugginito per caso conficcatoglisi in un piede o in una mano, sa che terribili siano le sofferenze cui si va incontro.
L’antitetanica, dunque, pur comportando dei rischi come ogni altro “medicinale” (mi si perdonerà la semplificazione accomunante categorie medicalmente differenti), è stata ed è necessaria per evitare che principalmente i figli della povertà di tutti i tempi moderni potessero essere esposti a rischi che, fortunatamente, non correvano i ragazzi di famiglie ricche e importanti.
Dunque, l’estensione universale delle vaccinazioni è stata una conquista non solo della medicina che le ha sapute proporre senza imporle, facendone conoscere l’utilità necessaria, ma anche della politica, del civismo sociale.
Direi di più: la vaccinazione di massa è diventata un diritto di tutte le cittadine e di tutti i cittadini. Un diritto alla salute, alla sua tutela. Senza differenze di sesso, etnia, ceto sociale.
Detto questo, non nascondo la mia insofferenza per l'”obbligatorietà” che vivo sempre come una imposizione e, in quanto tale, come un elemento che dimostra l’arretratezza sociale di un popolo: quando si deve obbligare a ricordare l’Olocausto, è evidente che non vi è spontaneità nell’esercizio universale di una memoria che deve essere condivisa perché non eludibile in quanto anticorpo nei confronti di un ritorno ad un passato che spesso rischia di non passare…
E così, l’imposizione per decreto governativo, con tanto di pene fino a 7.500 euro o di perdita della patria potestà genitoriale qualora i figli non vengano vaccinati secondo le norme ormai vigenti, è sintomo di una incapacità popolare di saper scegliere ciò che è giusto per il proprio figlio anche nei confronti degli altri bambini, dei cittadini di domani.
E’ la stessa logica dell’euro da mettere nel meccanismo che lega il carrello della spesa alla sbarra da cui lo si preleva e poi si entra nel supermercato: per ottenere da tutte e da tutti la corretta ricollocazione del medesimo nella fila predestinata, bisogna legare la volontà alla naturale brama di recuperare la moneta.
Senza quello stratagemma i carrelli venivano un tempo, e verrebbero oggi, abbandonati nei parcheggi dei supermercati. Perché mai fare cinquanta o cento metri dalla propria automobile o dal proprio scooter per rimettere a posto il carrello? Chi se ne importa… Qualcuno lo rimetterà a posto. Qualcuno magari lo prenderà subito dopo…
Serve l’imposizione per poter attivare la volontà.
E nel caso dei vaccini serve un decreto per smontare esagerazioni e falsificazioni dei protocolli medici. Ma questo non può consentire al governo di diventare padrone dei figli degli altri giudicando i genitori, a sua volta, “non proprietà” assoluta dei genitori.
Che lo Stato debba occuparsi della salute pubblica dovrebbe essere dovere e diritto costituzionale. E’ evidente che lo Stato se ne ricorda meglio quando deve imporre, piuttosto che abituare, quindi educare civicamente i cittadini ad un principio sacrosanto. Soprattutto, il diritto alla salute e il diritto all’istruzione non possono essere legati da un vincolo impositivo. Dovrebbe esservi una linearità tra tutto ciò: l’ingresso dei bambini nella società, nel mondo della scuola, dovrebbe avvenire naturalmente, con sempre meno imposizioni, con sempre più libertà di espressione e di autogestione.
Qui si mescolano pedagogia, sociologia, istruzione e medicina. Quindi è un complicato calderone di diritti e tutele che si sovrappongono e che finiscono col complicare la vita di tutti e di ognuno. Ne deriva che il decreto è un po’ un pasticcio, una mescolanza che prevede persino delle punizioni, delle ammende, dei riscontri penali.
In questo modo non si educa un popolo ad essere civile perché l’imposizione spesso fa reagire al contrario, fa disobbedire per puntiglio, per orgoglio, per caparbietà.
Va bene stare dalla parte della scienza. Meno delle multinazionali. Anzi per niente.
Il giorno che un decreto di tal fatta sarà inutile, allora sarà un bel giorno tanto per la medicina quanto per i cittadini. Non imponete. Parlate, spiegate dati alla mano. Educate. Non obbligate. Mai.
MARCO SFERINI
20 maggio 2017
foto tratta da Pixabay