L’8 Novembre 2016 si terranno le elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America, i cui principali contendenti alla carica di Presidente sono Hillary Clinton per il Partito Democratico e Donald Trump per il Partito Repubblicano.
Un appuntamento decisamente importante, che non mancherà di avere ripercussioni sull’insieme della politica mondiale, sui rapporti inter-imperialistici e sui rapporti di forza tra le classi su scala internazionale.
Considerando il contesto generale in cui queste elezioni avranno luogo, è possibile affermare che la rilevanza di questa tornata elettorale sarà maggiore di quella in cui Barack Obama assurse per la prima volta allo scranno presidenziale, che pure fu notevole a causa del contemporaneo crack della Lehman Brothers, la più grande bancarotta nella storia del Paese.
Non abbiamo qui lo spazio per discutere nel dettaglio il lascito dell’amministrazione uscente ma la presidenza Obama, che tanto grandi quanto mal risposte speranze aveva suscitato non solo negli ambienti progressisti statunitensi ma anche all’estero, lascia un’eredità quantomeno problematica, di promesse non mantenute e di questioni irrisolte: solo per citarne alcune, il razzismo e la sistematica oppressione delle “minoranze” etniche, che anzi persiste e si approfondisce; il sostanziale fallimento dell’ “Obamacare”, la riforma sanitaria che prevede una copertura sanitaria statale obbligatoria per chi ne sia sprovvisto ma che non ha minimamente intaccato l’assoluto predominio del mercato nei servizi sanitari; lo strapotere delle grandi multinazionali, delle banche e delle società finanziarie, le quali hanno ricevuto poco più di un innocuo buffetto di rimprovero dopo il fallimento della Lehman Brothers nel 2008; il mancato ritiro delle truppe dall’Afghanistan e il coinvolgimento in nuove guerre in Medio Oriente, prime fra tutte quelle disastrose in Libia e Siria; il sostanziale immobilismo sui diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, molti dei quali scivolati nel vortice della precarietà, di lavoro dequalificato e di bassi salari, spesso sotto il minimo per garantire una mera sussistenza. Decisamente un esito molto diverso da quello che superficialmente lasciava supporre l’elezione del primo presidente nero della storia statunitense.
Gli Stati Uniti, o per meglio dire le sue classi dominanti, mantengono indubbiamente il predominio politico, economico e militare sul pianeta ma questa supremazia non è più solida come appariva prima dello scoppio della crisi economica che da otto anni non ha smesso di estendere i suoi effetti su tutto il globo, favorendo e accelerando anche la lotta e il caos geopolitico per la ridefinizione delle sfere di influenza globali tra le diverse potenze imperialiste e regionali, e facendo emergere lo scontro sotterraneo tra liberoscambisti e protezionisti a tutte le latitudini. Come vedremo, questi aspetti non sono affatto irrilevanti nella corsa alla Casa Bianca.
La sfida Clinton-Trump si gioca quindi su un crinale estremamente sottile e le banalizzazioni e spettacolarizzazioni dei media mainstream non aiutano certo nella comprensione della reale posta in gioco. Sebbene i due contendenti appartengano al “duopolio del Capitale”, essendo i Democratici e i Repubblicani strenui difensori dell’assetto capitalistico della società, ci sono differenze in termini di scontro tra diverse frazioni capitalistiche, diversi blocchi sociali di riferimento, che non sono affatto rilevanti sul piano della natura di classe di queste candidature, quanto sul piano della politica. Tagliando con l’accetta, Clinton è espressione dei grandi interessi capitalistici delle corporations e della riaffermazione degli interessi imperiali degli Stati Uniti nel mondo, ergo di un aggressivo liberoscambismo che si esprime in trattati internazionali come il TPP e il TTIP. Non a caso un importante sostegno bipartisan alla sua candidatura si è espresso sin da quando è stato chiaro che Trump sarebbe stato il frontrunner dei Repubblicani. Il magnate newyorkese, dal canto suo, è espressione di una base sociale composta da lavoratori bianchi impoveriti, disoccupati, impauriti e in cerca di identità, e della piccola e media borghesia declassata (in particolare dell’America conservatrice rurale e provinciale, e di quei settori industriali che spingono per una politica più fortemente protezionista contro la concorrenza estera). È evidente che all’interno di queste due macro-aree, sommariamente descritte, esistano differenziazioni, parziali sovrapposizioni e contraddizioni. Il punto è che in ultima analisi ciascuna esprime e indirizza politicamente gli interessi di frazioni diverse della borghesia statunitense e, come tali, sono inservibili come veicoli di una politica favorevole alle classi lavoratrici. Mentre scriviamo apprendiamo della notizia delle bombe multiple di New York e del New Jersey. Non sappiamo al momento come evolverà questa situazione, peraltro molto temuta, né che impatto avrà sull’esito finale delle elezioni. Tuttavia, non è azzardato sostenere che il forte impatto emotivo con l’ondata di paura generata da questo evento, potrebbe favorire in ultima analisi Trump.
Nonostante il silenzio dei media, però, Hillary Clinton e Donald Trump non solo i soli a concorrere alle presidenziali di Novembre. Ci sono altri due candidati che non avranno un ruolo secondario in questa competizione: Gary Johnson, per il Partito Libertario e Jill Stein, per il Partito Verde. Tralasciamo il primo, che per analogia potremmo paragonare ai Radicali italiani, a cui pure negli ultimi sondaggi è assegnata a una media dell’8%, per un focus sulla candidata verde, che è la vera novità di queste presidenziali e costituisce una ventata di freschezza a sinistra del panorama politico americano, a cui è assegnata una media nel 3% nei sondaggi nazionali.
La Stein, medico sessantaseienne di Chicago, una storia di attivismo ecologista, per i diritti dei Nativi americani, per la salute come diritto umano universale e per i diritti dei lavoratori, è stata scelta come candidata dei Verdi all’Assemblea Nazionale del partito del 4-7 Agosto a Houston, che ha peraltro cambiato lo statuto dell’organizzazione puntando in una direzione esplicitamente antiliberista con forti tratti di evidente anticapitalismo. La candidatura della Stein è l’esempio della coincidenza di circostanze favorevoli, in assenza delle quali sarebbe passata virtualmente sotto silenzio, come già occorso in altre occasioni analoghe (ad esempio a Ralph Nader nel 2000): ridotta credibilità dei due candidati principali, lungo periodo di crisi che ha messo parzialmente in discussione i tradizionali pilastri ideologici del capitalismo USA, riduzione della mobilità sociale per larghe fasce giovanili, oberate dai debiti universitari e da lavori precari e scarsamente retribuiti, recrudescenza dell’oppressione razziale strutturale dello Stato americano, riassorbimento subalterno e dequalificato della forza-lavoro caduta in disoccupazione dopo il 2008, marginalità e disoccupazione persistente in aree deindustrializzate del Paese, e last but not least, la nascita nel Partito Democratico di un’opposizione e di una dissidenza incarnata dal senatore del Vermont, Bernie Sanders.
In particolare Sanders è riuscito in un primo momento a catalizzare un malcontento che era in gestazione da molti anni e che non riusciva a trovare espressione politica: pur all’interno del Partito Democratico, la sua campagna per la nomination alle presidenziali ha sostenuto e si è appoggiata a coloro i cui interessi sono da lunghissimo tempo fuori dall’orbita di questo partito. In tal senso il movimento Occupy Wall Street aveva dato una prima espressione a questa esigenza, costruendo un senso comune che ha parzialmente sedimentato in alcuni settori, soprattutto giovanili, della società statunitense.
Parole d’ordine come sanità universale e gratuita, condono dei debiti studenteschi, salario minimo e disuguaglianza dei redditi, progressività delle imposte, ritiro delle truppe dai teatri di guerra, socialismo, sono diventate patrimonio più largo che piccole minoranze anticapitaliste e hanno fatto irruzione nella Convention dei Democratici del 25/28 Luglio a Philadelphia. In questa occasione, a seguito del sostegno sofferto da parte di Sanders alla Clinton, un centinaio di delegati, per lo più giovani e neri, hanno abbandonato i lavori della Convention rompendo con il Partito Democratico e, al grido di Feel the Bern, si sono uniti dapprima alle contemporanee assemblee del Socialist Convergence (ci torneremo a breve) e poi alla campagna politica ed elettorale dei Verdi, che indubbiamente segna una novità nella storia politica della sinistra USA: per la prima volta, l’alternativa politica credibile ai Democratici non è cercata più all’interno del partito ma in un’organizzazione da questo indipendente e a questo radicalmente contrapposta. Basti pensare che in seguito alla rottura dei cento, i Verdi hanno raccolto un milione di dollari in meno di una settimana, contando solo su una rete di attivismo militante e di base.
C’è da dire che ciò è stato possibile anche grazie all’entusiasmo generato dalla campagna di Sanders, soprattutto tra i giovani, che ha rimesso a tema a livello di massa un punto di vista alternativo, l’angolo di visuale di un blocco sociale con interessi radicalmente contrapposti quello dominante. Certo, la delusione è stata palpabile per la decisione di Sanders di appoggiare elettoralmente Clinton contro Trump, ma al netto di questa scelta pur molto criticabile, il senatore del Vermont ha già annunciato la separazione dal Partito Democratico fondando una nuova organizzazione non-profit, Our Revolution, per provare a dare continuità al percorso intrapreso con le primarie e soprattutto ai contenuti politici della sua esperienza.
Non è possibile neanche dimenticare l’incidenza del movimento Black Lives Matter, frutto del razzismo strutturale dello Stato e della società statunitensi ma anche della stridente contraddizione tra una percezione “post-razziale” del discorso politico liberale mainstream e la realtà fatta di un’oppressione sempre più radicale ed escludente. Questo movimento, nato nel Luglio 2013 in seguito al brutale assassinio del giovane nero Trayvon Martin da parte di un poliziotto in Florida, ha espresso numerose azioni di lotta, protesta e rivolta contro la quotidianità violenta che i neri americani subiscono, e ha conquistato la ribalta politica costruendosi come il primo movimento di massa afroamericano dai tempi del movimento per i diritti civili, Malcom X e le Pantere Nere (di cui peraltro alcuni vecchi militanti sono oggi nel BLM). Al momento, se si escludono singole prese di posizione da parte di esponenti del movimento, non ci sonoendorsement ufficiali per questo/a o quel/la candidato/o e non è prevedibile alcun appoggio ufficiale. Sebbene la campagna della Stein sia la più vicina in assoluto al movimento rispetto ai temi, all’approccio e alla radicalità antirazzista, il BLM è estremamente geloso della sua autonomia e delle sue modalità di funzionamento che si concretizzano nella costruzione di radicamento nelle comunità nere e nell’allargamento costante della coscienza dell’oppressione razziale unita all’idea che sia necessario trasformare le strutture dello Stato e dell’economia per risolvere anche la questione razziale. È perciò che questo movimento non è “separatista” ma è pronto alla collaborazione con chiunque condivida questi obiettivi, bianchi compresi, lasciando intravedere una decisiva lettura di classe dell’oppressione degli afroamericani.
Dal canto suo, la fin qui marginale, minoritaria e frammentata sinistra anticapitalista, pare aver trovato dallo scoppio della crisi una capacità diversa di rapportarsi non solo tra le sue diverse organizzazioni e tendenze, ma anche con i fenomeni di radicalizzazione incipiente della società, provando ad abbandonare autoreferenzialità e settarismo e costruire processi di convergenza unitaria sia tra le lotte che dal punto di vista organizzativo, pur mantenendo le proprie strutture e il proprio orientamento. Le organizzazioni anticapitaliste hanno infatto partecipato e/o avuto relazioni con la campagna di Sanders prima, con quella della Stein poi, non limitandosi a commentare ma costruendo attivamente organizzazione sia sul piano politico-elettorale che sul piano delle lotte e dei conflitti.
In tal senso importantissime sono state le assemblee del Socialist Convergence: una serie di incontri e discussioni in cui quasi tutte le organizzazioni della sinistra ancitapitalista, dei delegati democratici dissidenti e di esponenti del BLM hanno dibattutto su come proseguire e approfondire la costruzione del movimento dandogli solide basi organizzative, politiche e teoriche.
Resta da vedere quanto e come queste iniziative sapranno ulteriormente incontrarsi, condurre insieme le necessarie battaglie, continuare a collaborare politicamente dopo le elezioni a prescindere dall’esito e soprattutto come questo movimento plurale, ma costruito attorno ad alcuni assi di fondo chiari e inequivocabili, saprà strutturarsi in modo permanente per radicarsi nei luoghi dello scontro sociale e di classe.
ANTONELLO ZECCA
[una versione di questo articolo è uscita sul numero de L’Anticapitalista di ottobre 2016]
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