Ho sentito alcune sere fa per ben due volte, in due diverse trasmissioni televisive di buon ascolto, con ospiti degni di massimo rispetto e stima (seppur a volte meno sul piano del confronto delle idee politiche), parlare del presente momento di ingresso nell’autunno rovente delle vicende parlamentari e genericamente “istituzionali” come di uno scontro tra apparati dello Stato, citando persino la “guerra civile” in termini di prospettiva poco più che futura per l’Italia.
“Guerra civile” a volte intesa come disequilibrio dei poteri, confliggenti su affari così complicati, come quello Consip, da dover seguire con moltissima calma i passaggi in una terza trasmissione: uno speciale di “Bersaglio mobile” di Enrico Mentana molto ben fatto, tanto da consentire anche al sottoscritto scrivente di fare il punto della situazione senza perdere il filo in mezzo all’intreccio di inchieste e indagini in corso.
Ma ciò che è risultato interessante è proprio l’analisi che riguarda lo stato del Paese in questo preciso istante: giustamente, si è stigmatizzata la locuzione “guerra civile” mettendo in evidenza l’impraticabilità proprio sociale e (in)civile di un sommovimento violento, di un fronteggiamento armato tra una parte e un’altra del popolo italiano. In questi termini parlare di “guerra civile” è un infantilismo giornalistico che porta ad un allarmismo che si spegne nel suo leggero apparire.
E’ così improbabile nel suo concretizzarsi anche a lungo termine da dimostrare che, quando si richiamano enfasi di questo tipo, non si fa altro che dimostrare una sottovalutazione del contesto complessivo in cui vive l’Italia oggi: l’Unione Europea anzitutto, come contenitore economico e quindi strutturale di una dinamica politica che verrebbe frenata sul nascere, quanto meno, se dovesse per le strade dello Stivale manifestarsi un clima simile.
Le istituzioni sovranazionali saprebbero certamente indicare la via italiana ad un governo moderato, capace di farsi ben volere tanto dai grandi poteri industriali e finanziari quanto dal proletariato moderno che non ha coscienza di sé e che non sa individuare il nemico da fronteggiare.
Ciò non toglie che un pezzettino di verità vi sia quando si afferma che questo Paese vive degli scontri interni ma non alla base delle sua società, bensì al vertice.
Ragionamento ineccepibile perché oggettivo: la borghesia nazionale punta ancora sul ruolo interclassista del Partito democratico ma ancora non ha stabilito se il cavallo che deve correre per vincere la gara delle politiche del 2018 sarà Renzi oppure Gentiloni oppure ancora Minniti. Questo per ciò che concerne il campo della impropriamente detta “sinistra”. Le parole volano ma provocano danni quasi irreparabili se vengono ripetute e dogmatizzate.
Nel centrodestra sembra che la lotta politica per una conduzione dei giochi sia da disputare tra Salvini e Berlusconi. Si dice che la attuale legge elettorale, come del resto anche le precedenti, non richiedevano una “leadership” da presentare al popolo prima e durante il voto.
Verissimo. Tuttavia, la mutazione politica della società italiana, quindi il deperimento progressivo del rapporto tra la seconda e la prima, ha reso necessario il ruolo di un uomo solo al comando di una coalizione o di una forza.
Un tempo le campagne elettorali dei grandi partiti novecenteschi erano fatte quasi coralmente. Emergeva sempre la figura del segretario politico ma anche i membri delle segreterie e delle singole assemblee nazionali giravano per l’Italia a fare propaganda, a cercare consensi soprattutto ideologici.
Oggi l’ideologia è ancora proclamata come “morta”: contano le “idee”, come se messe insieme non costituissero, alla fine della tenzone, una idea unica fatta di tante piccole proposte, una idea che diventa – se lo diventa – interpretazione della società e volontà di trasformazione. Quindi, ideologia. E non è una parolaccia. Lo è diventata, grazie al sistematico e perverso gioco del ripetitivo mantra che ha posto l’anatema su parole che si poteva in qualche modo identificare con la “prima Repubblica”.
Quindi, Salvini e Berlusconi possono giocare a fare i “leaders”, a rappresentare ciascuno un pezzo di destra da unire poi – come Costituzione vuole – in Parlamento con le consultazioni.
Il movimento 5 Stelle, invece, sceglie facendo finta di non scegliere. Luigi Di Maio sarà il rappresentante politico subito dopo il garante Grillo.
E allora i giornali e le televisioni concentreranno la campagna elettorale su tre poli più qualche sguardo a sinistra dove non c’è nulla di nemmeno imbastito, di preimpostato. Fumus, la cui persecuzione sta nella frammentazione che non per forza deve essere singolarizzata in una unità forzosa, fatta per scalare l’8% di sbarramento al Senato della Repubblica e il 3% alla Camera dei Deputati. Eppure, mentre esistono tre proposte politiche di destra, variamente definite e caratterizzate, non esiste nessuna proposta di sinistra di alternativa, dei comunisti e dei socialisti di sinistra.
Siamo quasi a fine settembre ed ancora non c’è nessun tavolo comune in cui intravedere una proposta progettuale.
Rimaniamo ancorati alla speranza che le buone parole dette al Teatro Brancaccio prima dell’estate si possano presto tradurre in una iniziativa che però eviti l’indagine e sia solo propositiva. Occorre che il percorso “dal basso” deleghi ai propri rappresentanti politici parte della sua presunta “sovranità” e lasci operare nel senso, appunto, della proposta. Non della decisione preventiva in stile grillino; tanto meno nella investitura storica del ventennio berlusconiano o nella rottamazione leghista che divora i suoi padri.
Servono proposte su tanti piani: prima di tutto i “confini” programmatici del progetto di un quarto polo della sinistra di alternativa. Ammesso che possa essere “della sinistra di alternativa” e non si voglia accogliere gli appelli di chi vuole ricreare una impossibilità politica come quella di un nuovo centrosinistra.
Per questo occorre fare presto e farlo sapendo che l’obiettivo per i comunisti non può essere semplicemente quello di ricostruire un gruppo parlamentare, che è certamente molto importante, ma deve essere prima di tutto quello di ridare vita ad una riconoscibilità politica, quindi sociale, quindi civica e civile.
E la “riconoscibilità” non può che derivare dalla differenza rispetto al resto, a tutte le altre proposte in campo. Non serve ambiguità di sorta. Servono poche parole, precise, ripetute e serve lavorare per costruire su quelle proposte una dialettica incisiva che faccia sentire al pi sprovveduto dei cittadini e dei lavoratori, al più ignorante di politica dei precari e dei disoccupati dove si cela una soluzione di parte e non compromissoria che li porti a combattere per aumentare lo spettro dei loro diritti ridimensionati e cancellati in trenta e più anni di liberismo.
Senza uno schema di questo tipo, la lotta in Italia non sarà di classe ma sarà sempre tra settori di un’unica classe sociale: quella dominate. Quella borghese. Quella padronale e finanziaria.
L’alternativa muore già come parola quando qualcuno tenta di inserire nel piano di progetto politico anche un solo elemento che dica più o meno esplicitamente: “Dobbiamo essere realisti, concreti.”. La realpolitik di Bismark qui non c’entra niente e tanto meno quella che i moderati di sinistra pensano di poter chiamare “interesse del Paese”. Non esiste un generico “interesse del Paese”, ma solo l’interesse degli sfruttati che non si accorgono di essere sfruttati: lavoratori, precari, disoccupati… pensionati e indigenti di tutti i generi.
L’unico interesse che conta è il loro, non quello di un vago, indistinto “Paese” che finisce sempre per chiamarsi “pace sociale” ed è quanto di più antisociali si sia sperimentato nella lunga storia del capitalismo italiano, europeo e anche mondiale.
MARCO SFERINI
20 settembre 2017
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