A chi volesse comprendere la reale portata del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) varato dal governo consiglierei di partire, nella lettura, dalla fine anziché dall’inizio. In particolare, suggerirei di dedicare un’attenzione preliminare, e particolare, all’ultimo capitolo del documento, nel quale vengono esaminati gli «impatti delle riforme». «I Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza sono innanzitutto piani di riforma», si legge in esso. Significa che il Piano rappresenta la leva attraverso cui si dovranno realizzare una serie di «riforme strutturali» volte a trasformare la situazione presente, in nome di una maggiore «competitività» del sistema. Uno schema perfettamente neoliberista. Nel quale lo Stato non scompare, ma si pone a diretto servizio dell’economia di mercato. Uno schema astratto, nel quale di concreto ci sono soltanto il ritiro del settore pubblico dall’economia e la riduzione dei costi di produzione.
Gli ambiti per i quali vengono simulati gli impatti delle riforme sono tre: pubblica amministrazione, giustizia, competitività. Ma è sul terzo ambito che bisogna concentrarsi per comprendere la filosofia di fondo che ispira l’intero documento. La premessa è che le riforme devono far crescere il grado di concorrenza dei mercati. Per raggiungere questo obiettivo, è necessario innanzitutto fotografare la situazione di partenza. Quanto è competitiva l’Italia in rapporto ad altri Paesi? La risposta la dà un indicatore che misura il rapporto tra livello di regolazione dei mercati e performance dell’economia: l’«Indice di regolamentazione del mercato dei prodotti» (Pmr), sviluppato dall’Ocse.
L’equazione su cui si basa il modello di comparazione è molto semplice: a livelli elevati di regolamentazione dei mercati e di presenza dello Stato in economia corrispondono una bassa competitività del sistema, quindi una sua debole propensione alla crescita, alla creazione di ricchezza, all’incremento dell’occupazione. Tutto in linea con la teoria economica dominante, secondo la quale è solo il mercato a determinare la migliore allocazione possibile delle risorse, in vista del conseguimento di obiettivi economici di cui potrà beneficiare tutta la società. Tesi farlocca. La storia ha dimostrato esattamente il contrario.
Che anche quando il mercato raggiunge un certo «equilibrio», quest’ultimo non è mai ottimale. E che, al netto delle crisi, in una società organizzata secondo questo schema l’optimum è possibile solo per chi detiene i mezzi di produzione e sfrutta il lavoro altrui. Insomma, da molti decenni a questa parte, l’equilibrio ottimale dei mercati concorrenziali è rimasto solo nei grafici dei manuali di economia politica. E nei documenti di politica economica dei governi.
Nel 2018, l’indice Pmr dell’Ocse segnalava per l’Italia, come per il passato, un problema di bassa competitività. Non tanto per i livelli di regolazione del mercato, ma per l’«eccessiva presenza dello Stato in economia». È da qui che muove il Piano. Bisogna privatizzare e liberalizzare ancora di più per mettere le ali all’economia. Non mancano, ovviamente, numeri e tabelle per dimostrare questo assunto: una riduzione del 15% dell’Indice di regolamentazione dei mercati «genera dopo 5 anni un aumento del Pil rispetto allo scenario di base pari a 0,2 punti percentuali, mentre nel lungo periodo si arriverà a 0,5 punti».
Un mondo fantastico, che fa a pugni con la realtà drammatica in cui siamo immersi. La pandemia ha reso evidente quanto siano state nocive per la qualità della vita le scelte di politica economica compiute negli ultimi decenni all’insegna delle formulazioni che ancora si ritrovano in questo Piano. Sanità, lavoro, servizi pubblici: le fragilità del sistema sono imputabili ad una presunta «ristrettezza» del mercato o al fatto che tutto è stato mercificato, finanche il diritto alla salute? Per quanto riguarda la bassa crescita, è stato un problema di concorrenza o una questione di domanda insufficiente, figlia di alti livelli di disoccupazione, di lavoro sottopagato, di politiche che hanno compresso la spesa pubblica, della povertà? Purtroppo, con l’eccezione di sparute minoranze, invisibili agli occhi dei media, nessuno in questo momento agita seriamente questi problemi.
LUIGI PANDOLFI
Foto tratta da Pixabay