Delle tre categorie dell’economia classica, il salario se la passa decisamente male, profitto e rendita vanno alla grande. Il salario è l’unica componente della classica triade a farsi carico della produttività, della competitività aziendale, e ora anche del contrasto all’inflazione; rappresenta la “variabile dipendente” di un sistema che gira intorno alle imprese; misura la condizione di sfruttamento e di svalutazione del lavoro.
I salari sono bassi non per colpa del “destino cinico e baro”, ma perché imprese e altri comparti dell’economia sottraggono in maniera sistematica al lavoro dipendente una quota rilevante di reddito. Nel 2021, l’anno orribile del Covid, l’1 per cento più ricco degli italiani si è accaparrato il 63 per cento della ricchezza prodotta. Le buste paga risultano più leggere di 30 anni fa. Il reddito pro-capite italiano è inferiore del 7 per cento rispetto alla media europea e del 15 per cento rispetto all’area euro. Nel Sud il reddito medio per abitante è la metà di quello del Nord.
Tutti i dati statistici convergono nel descrivere un paese dove le diseguaglianze sociali e i divari territoriali assumono un contorno particolare e dimensioni più accentuate rispetto al resto d’Europa. L’Istat ci spiega che l’inflazione si scarica sui redditi bassi con un peso quattro volte superiore che sui redditi alti. Si è oltremodo allargata la forbice tra redditi alti (dirigenti, liberi professionisti, uomini della finanza, personaggi dello spettacolo e dello sport, ecc.) e redditi bassi. In media un manager guadagna 300 volte più di un operaio.
Ogni limite di decenza morale è ormai superato. Gli ingaggi milionari di calciatori di serie A, i compensi incredibili ad attori, attrici, conduttori, giornalisti televisivi, i cachet fuori misura a star famose per la pubblicità, fanno a pugni con la condizione di sopravvivenza a cui è condannata tanta parte dell’umanità. Nessuna considerazione relativa al merito o al talento individuale può mai giustificare divari così abissali con la retribuzione di un comune lavoratore.
Milioni di giovani e donne sono condannati alla disoccupazione o ad accettare lavori precari e sottopagati e le uniche voci di bilancio su cui il governo risparmia sono il reddito di cittadinanza e le pensioni. In poche parole, le ricette liberiste in Italia hanno avuto un impatto più devastante che altrove. Le distanze tra i primi e gli ultimi sono maggiori di quanto le statistiche non rivelino. Alla crescita delle disuguaglianze e delle fasce di povertà il fisco non pone alcun freno. I meccanismi di distribuzione e di redistribuzione della ricchezza prodotta si sono inceppati.
Viviamo in un mondo in cui “quelli che prendono” (the takers), prevalgono su “quelli che fanno” (the makers), i “cacciatori di rendite” hanno la meglio sui “veri creatori di ricchezza” (M.Mazzucato, Il valore di tutto, Laterza, 2022). La destra ha tratto vantaggio dalle insicurezze e dalle paure create dalle dinamiche della globalizzazione, ha saputo cavalcare le conseguenze spesso disastrose della destrutturazione economica, della frammentazione degli interessi, della disgregazione sociale. Si muove a suo agio tra le disparità sociali e le contraddizioni che attraversano il mondo del lavoro.
Ha sfruttato a suo vantaggio sia gli effetti dello smantellamento delle tutele sociali e della privatizzazione dei servizi che lo scontento e la protesta di categorie preoccupate di perdere particolari vantaggi e rendite di posizione. Il declino della sinistra, viceversa, comincia con il venir meno del legame con coloro che subiscono sulla loro pelle discriminazioni e ingiustizie. Un largo settore della società, quello che sta peggio, si è visto senza rappresentanza, di fatto abbandonato a sé stesso, privato di protagonismo sociale.
La situazione rischia di aggravarsi. La strategia della destra è ben delineata: da un lato autonomia differenziata, un mix perverso di deregulation territoriale e di sovranismo in salsa regionale; dall’altro presidenzialismo, Stato forte, “legge e ordine”. Sono scelte che mettono a rischio il patto sociale, a partire dai contratti nazionali del lavoro, tendono a lacerare il tessuto democratico e a fiaccare l’unità del paese. Ripartire dalla questione salariale e da quella fiscale, in questo contesto, significa indicare una visione alternativa alla cristallizzazione dei rapporti sociali dati e al consolidamento degli attuali equilibri di potere.
Per dirla tutta, non è più tempo di pax salariale, di perseguire cioè una malintesa linea di responsabilità nazionale. L’esperienza insegna che i maggiori profitti aziendali, anziché essere reinvestiti in innovazioni produttive, spesso e volentieri spiccano il volo e acquistano le sembianze della rendita finanziaria e immobiliare. I bassi salari nel nostro paese consentono la sopravvivenza di settori economici arretrati e parassitari, e nuocciono gravemente alla salute dell’economia, non solo alle tasche dei lavoratori. Vi sono buone ragioni per ripartire dai grandi temi della distribuzione del reddito e della redistribuzione sociale.
GAETANO LAMANNA
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