Non riesce bene a Viktor Orbán il tentativo di dissimulazione della minimizzazione del dissenso sull’apertura della procedura di adesione all’Unione Europea per l’Ucraina. Nonostante i miliardi di euro sbloccati per la sua Ungheria, il nodo di fondo rimane ma, si sà, il potere del denaro in questi casi è una ripercussione anzitutto politica e, anche dopo le elezioni continentali del prossimo giugno, il sovranista magiaro intende rimanere ben saldamente al governo del suo paese.
Riesce meno bene ancora l’altro tentativo, quello di Metsola, Scholz e Macron di fare di Kiev il faro di una democrazia liberale, visto che nel paese in guerra con la Russia tante sono le analogie proprio con il nemico su questo terreno che non è propriamente bellico: corruzione diffusa, oligarchie che dettano legge al potere politico (di più a Zelens’kyj, meno a Putin), divieto di critica delle decisioni del governo, messa al bando delle forze di opposizione.
Kiev e Mosca si somigliano più di quello che credono e, solamente per le rispettive uguali e contrarie propagande imperialiste, occidentali nordatlantiche da un lato e putiniane dall’altro, sui mezzi della cosiddetta informazione sembra che tra i due blocchi esista un divario insuperabile. La guerra, sì. Il Donbass e l’estensione della NATO ad est. Ed ora l’ennesima pedina fatta spostare sulla scacchiera della geopolitica interanzionale dagli Stati Uniti ad una Europa che è francamente la quintessenza della inettitudine, della debolezza strutturale.
L’adesione futura dell’Ucraina all’Unione è francamente meno paradossale di quella della Georgia (siamo alle soglie dell’Asia, di vecchi imperi tamerlanici e di canati di orde mongoliche che non hanno nemmeno lontanamente un legame con la storia dell’occidentalismo del continente che ha conquistato il mondo…), ma induce ad una riflessione su quali siano alla fine i veri confini della UE e se, in quanto aggregato di paesi molto differenti fra loro, possa sovrapporsi quanto meno alle geofisicità dell’Europa stessa.
La storia è bizzarra, ma proviamo a pensare al fatto che, mentre il Regno Unito è fuori da un contesto soprattutto economico comunitario, per sua scelta, proprio perché questa Unione era un macigno che pesava sulle sue potenzialità espansive (non che uscendone abbia conosciuto questo enorme sviluppo…), si pensa di inserirvi paesi che sono improntati ad un profilo agricolo marcato, in particolare l’Ucraina e che, quindi, destabilizzeranno il mercato comune non appena vi faranno ingresso.
Questa è una delle contraddizioni su cui il liberismo può alacremente lavorare per smussarne gli angoli e fare in modo di sfruttare a dovere anche le qualità di quel paese, le risorse di quel popolo martoriato dalla guerra. Ma poi esistono delle stridenti difformità che, nell’area balcanica, dalla Bosnia fino alla Moldavia, e in quella caucasica si porranno verso tanto il cuore della Mitteleuropa quanto verso quello della Eurasia.
L’espansione dell’Alleanza atlantica verso Est sembra procedere di pari passo con quello della UE e viceversa. Questi due grandi carrozzoni dell’imperialismo moderno si complementano a vicenda e, proprio nella guerra in Ucraina, hanno trovato il migliore dialogo possibile. In questi giorni si parla tanto del MES: va ricordato che una buona parte dei fondi che sarebbero dovuti essere destinati al recupero delle strutture sociali del post-pandemia da Covi19 sono, invece, stati destinati all’acquisto di armi per lo sforzo bellico.
Non è forse vero che la NATO è rinata a nuova vita proprio nel momento in cui la guerra del Donbass ha fatto il salto di qualità negativa dell’invasione russa dell’Ucraina a nord e a sud-est? Le ragioni del putinismo hanno coinciso qui con quelle della ricerca di un pretesto utile per dichiarare la guerra per procura alla Russia, stando bene attenti ad arrivare al compromesso con Zelens’kyj sull’asse isterico delle trattative presunte per l’adesione immediata, sic et simpliciter, di Kiev tanto al fronte nordatlantico quanto a quello dell’Unione Europea.
Pezzo dopo pezzo, risulta sempre più lampante la rivoluzione geopolitica in atto.
Mentre Cina, India, Russia, Sudafrica, Brasile e gli altri paesi del BRICS costituiscono una alternativa al blocco euro-statunitense sul piano squisitamente economico-finanziario, dentro comunque una cornice liberista che non viene messa in discussione, semmai criticata per come è interpretata dal competitor, la strettissima conservazione dei dettami del FMI, della Banca Mondiale e persino dell’OPEC è affidata quasi interamente (con qualche sbavatura arabeggiante per quanto riguarda il fossile…) ad una idea ancora egemonica a stelle e strisce.
Fare leva sui conflitti pseudo-regionali che si sono infiammati in questi ultimi anni, non ultimo quello tra Hamas e Israele che riporta in auge la drammatica condizione sopravivvenziale del popolo palestinese, non è una garanzia di veloce cambiamento strutturale di ampie fette di mercato che ristrutturino così le rispettive economie dei poli capitalistici in riemersione e in sviluppo.
Prova ne è tanto la stagnazione del fronte in Ucraina quanto l’affermazione da parte israeliana, nonostante le ottimistiche previsioni di Biden, che Hamas è tutt’altro che annientato e che, quindi, le sofferenze per i palestinesi saranno ancora temporalemente e materialmente lunghissime.
La Russia, per dichiarazione del suo presidente, sostiene una lotta per l’indipendenza nazionale proprio da quei tentacoli imperialisti che, a sua volta, protende verso altre aree del mondo. Anche se sembra cercare un bi-trilateralismo asiatico che non trova riscontro invece nel settore occidentale da parte americana.
Più lucido dell’amministrazione bideniana è il Pentagono che ammette l’imminnenza del punto di non ritorno nella guerra in Ucraina. Non si tratta solamente di mancanza di armi, ma di impossibilità a produrne nuovamente tante quante i russi. L’economia di Mosca, lungi dall’essere piegata dai pacchetti sanzionatori magnificati come una grande strategia di lungo termine, è in risalita e, non solo a detta di Putin ma pure di analisti insospettabili di essere filorussi, lo è grazie all’ingente produzione di armamenti.
Si sa… l’industria delle armi è una di quelle che fattura più di tante altre al mondo. Non conosce periodi di crisi verticale. Qualche flessione, ma mai dei tracolli. Perché finché c’è guerra c’è speranza. La politica estera europea è un crogiolo di rivendicazioni tanto dicotomiche, di spinte così eterodosse da negare in principio qualunque tentativo di sintesi ragionata e veramente unitaria nella conformazione di una comune visione continentale di quello che avviene anzitutto ai propri confini e, poi, anche nel resto del mondo.
L’Unione Europea non ha una vera politica comune né negli affari interni, dove il potere di veto di un singolo paese su questioni dirimenti è tutt’ora vincolantissimo; né la ha negli affari esteri, dove sono più che cristalline le fratture tra ovest ed est dell’Unione, dove permane una cortina di ferro tutta moderna, eredità di un passato che ha lasciato il Vecchio continente ancora diviso tra ricchi e poveri, tra chi detta la linea a chi la subisce.
Questo asse orizzontalmente riflettente si è poi sdoppiato nella contrapposizione tra nord e sud dei Ventisette. Rigidità ed austerità dei “paesi frugali” contro disagio economico e sociali di quelli che affacciano sulle sponde delle tante problematicità che emergono dalle mortifere acque del Mar Mediterraneo.
Le nuove candidature all’ingresso nell’Unione, piuttosto che corrispondere ai veri criteri fondativi del comunitarismo europeo, seguono la via della compatibilità esclusivamente economica. Fanno da ostacoli superabili con trattavive compromissorie le tante asperità che la democrazia registra nell’affermarsi pienamente nei singoli Stati.
L’Ungheria che rimprovera all’Ucraina di non avere gli standard necessari per essere parte della UE fa piuttosto amaramente sorridere, visto che soffre della stessa malattia: repressione del dissenso, limitazione dei poteri costituzionali a favore dei rispettivi esecutivi, limitazione quindi dei diritti costituzionali dei cittadini ad organizzarsi in partiti di opposizione, censure varie, discriminazione delle minoranze e rivendicazioni etniche di lunga data.
Crimea, Transcarpazia, Vojvodina, tanto per citare alcune regioni storicamente a metà tra due popoli, sono discriminanti di non poco conto. Intorno alle geografia etnica dell’Est si muovono una serie di interessi che non vanno affatto sottovalutati, perché, più della convivenza tra i popoli, l’Unione Europea sembra aver fallito, al momento, nella realizzazione del superamento dei singoli nazionalismi ed etnocentrismi. La guerra del Donbass, che si trascinava da una decina di anni nel silenzio più totale dei giornali e delle televisioni, è la sostanziazione di questi spettri.
Le cosiddette “precondizioni” che, se assolte, garantirebbero all’Ucraina l’ingresso nell’Unione Europea, sono le stesse che vengono, in larga parte, disattese tanto dall’Ungheria quanto dalla Polonia (che, si spera, col cambio di governo si riallinei almeno a quel minimo comune denominatore liberaleggiante su cui poggiano le “virtuose” democrazie occidentali…). Dunque quale confine morale, politico e socialmente accettabile può vantare la UE in un confronto tra imperialisimi di cui va ignominiosamente parte?
Quale vera autonomia ed indipendenza può rivendicare rispetto agli Stati Uniti d’America quando obbedisce pedissequamente alle direttive della NATO, alla voce grossa stoltenberghiana che convince in un battibaleno i premier cechi e magiari ad allinearsi nel nome del do ut des, di una machiavellica politica dell’opportunismo più antipopolare che possa esservi, finalizzando il tutto alla conservazione dei propri gruppi dirigenti politici a tutela dei poteri economici nazionali e transnazionali?
La risposta è: nessuna autonomia, nessuna indipendenza. De jure forse, de facto è il contrario. Non è un azzardo suppore che l’insistenza da parte atlantica dell’ingresso dell’Ucraina nella UE sia un ovvio favore a Washington per smobilitare parte del sostegno attuale e metterlo in carico all’Europa medesima.
Guerra scaccia guerra, quando non vi si somma apertamente. E quella sul fronte del Donbass è divenuta piuttosto impopolare negli States, tanto da, se non proprio saldare, quanto meno rendere piuttosto comune la critica tra repubblicani e settori democratici nella distrazione di parte delle risorse del bilancio statunitense a favore di Kiev. Il tempo gioca a svantaggio proprio di quel fronte occidentale che si proclamava, ancora non molti mesi or sono, fiero e compatto difensore della democrazia ucraina a tutti i costi.
Una democrazia, tra l’altro, come abbiamo visto, non propriamente definibile in quanto tale, mentre Putin parla ancora di “denazificazione” di un paese ostaggio di un governo che negherebbe, sostanzialmente, l’unicità di due popoli in un popolo solo, in un solo paese.
L’Unione Europea è sempre meno un orizzonte di popoli che vivono insieme sotto la stella della democrazia. E’ un groviglio di interessi che si tengono soltanto perché, se distinti fra loro, collasserebbero sotto il peso della concorrenza spietata di economie prepotenti: da ovest ad est anzitutto. Ma l’Europa di Macron, Scholz, Metsola, von der Leyen e Lagarde non è in grado di competere con il neocapitalismo liberista di vecchio e nuovo modello. E’ una invenzione artificale che non ha nervatura socio-politico-culturale.
Sta in piedi solo per disperazione. Un continente che, ancora oggi, non ha trovato un equilibrio tra i tanti particolarismi che lo abitano. Nonostante la spinta della globalizzazione alla concentrazione degli interessi, l’Europa annaspa in questo pantano di nazionalismi, nel ruolo di intercapedine tra America e Russia, tra America e Cina, tra America a resto del mondo. La grande lungimiranza del governo Meloni nell’abbandonare al suo destino la nuova Via della Seta è davvero emblematica della pochezza che sta ai vertici del microcosmo italiano.
E, in fondo, ricalca la navigazione a vista dell’Europa delle piccole patrie. Piccole. Molto, molto piccole.
MARCO SFERINI
15 dicembre 2023
foto: elaborazione propria