Unità ed indivisibilità. Il binomio appare con ricorrenza per la prima volta durante la Rivoluzione francese quando, con la caduta della monarchia, la nuova repubblica si proclama, al posto del re, il soggetto unificante della nazione e, in questa impersonificazione della rappresentanza popolare nella sua completezza, diviene l’indivisibile per eccellenza. La Francia come corpo politico e sociale è un individuo statale, è una essenza singola e molteplice allo stesso tempo.
Mentre nell’assolutismo dei re è il sovrano ad assumere su di sé il ruolo di emblema dell’intero paese, nella repubblica l’individualità del potere coincide col collettivo: la Convenzione è una ma è formata da molti deputati. Il potere costituzionale è uno ma prevede una differenziazione pur nell’equipollenza dei diversi organi di governo dello Stato.
Mai, come durante il periodo rivoluzionario francese, una grande storia nazionale è stata sovvertita così a fondo, da riconsiderare i rapporti tra singolo e plurale, individuale e collettivo. La stesa idea di “rivoluzione” è la forma mentis di una espressione di un protagonismo delle masse che assume i connotati dell’individualità, in quanto fenomeno nuovo con precise caratteristiche evolutive.
Non per niente si parlerà di “movimenti popolari“, pur prescindendo dalla nozione aristotelica (che considereremo più avanti), come fattori di trasformazione vitale, come energia complessiva di tanti individui prima letargicamente costretti a sopravvivere a sé stessi in un contesto di privilegi nobiliari e clericali propri di una medievalità considerata, a torto, sinonimo di regressione a tutto tondo.
La differenza storica tra monarchismo e repubblicanesimo trova qui, nella dicotomia che si crea con la rottura rivoluzionaria, la sua più moderna espressione fondante due idee nettamente opposte di rappresentanza, governo e gestione di una intera nazione.
Individualità del potere e sua, invece, derivazione da una sovranità popolare che, di per sé, è inseparabile nella sua delega ultima, quella che viene fuori dal consenso espresso col voto, ma che ugualmente è un coro di voci in cui coesistono maggioranza e minoranza.
La diversità, quindi, è parte stessa di una unità che, in questo modo, viene corroborata da un pluralismo determinante la dialettica non solo degli opposti, ma prima di ogni altra cosa l’ascolto reciproco, la tolleranza delle idee differenti dalle proprie in modo vicendevole.
La Rivoluzione francese non è individualistica nel senso più novecentesco possibile del termine; è semmai una delle soluzioni alla possibile contraddizione tra il concetto di individuo come inseparabilità di e da sé stesso nella commistione che si crea proprio nella simbiosi tra essere umano ed essere cittadino.
Aristotele, proprio riguardo l’individuo e il suo sviluppo nella società, parla di “animale politico” quando si riferisce alla persona impegnata nella realizzazione della propria essenza entro il contesto tanto della città quanto della più ampia vastità del mondo allora conosciuto.
Lo ζῷον πολιτικὸν (“Zoon politikòn“) è, in pratica, l’essere sociale che si esprime in noi, ed attraverso noi, nel momento in cui ci riconosciamo come inseparabili dal contesto in cui nasciamo, cresciamo e ci raffrontiamo con i nostri simili e, perché no, anche con i nostri dissimili. Il tema dell’individualità è anzitutto un ragionamento che si svolge durante i secoli attorno ad una ricerca gnoseologica autoriferita su noi in quanto soggetto ed oggetto di indagine al medesimo tempo.
Se l’umanità è costituita da individui, allora, per sapere di cosa stiamo parlando, domandiamoci: cos’è o chi è un “individuo“? L’etimologia della parola ci riporta ovviamente al latino: in-dividuus, indivisibile. Qualcosa che non è separabile se non al prezzo di fargli perdere proprio le caratteristiche primordiali che lo connotano come tale.
Secondo Aristotele l’individuo è una “unità intrinseca“, ossia una unicità, una specificità che non è riscontrabile altrimenti se non con la presenza di tutte le sue caratteristiche, di tutte le parti che queste stesse caratteristiche esprimono. E’ evidente che noi, oggi, quando parliamo di “individuo” o di “individualità” intendiamo parlare di persone e di nuclei di persone.
Per Aristotele e per gli antichi non era così. Nonostante questo, abbiamo poco sopra scritto, e quindi preso atto, del fatto che lo Stato di Francia che diviene repubblicano nel 1792 può considerarsi un “corpo politico“. Quindi un individuo, pur senza una fisicità materialmente definibile.
L’individuo, quindi, è materia e forma, ed è coincidenza dell’una con l’altra e, per essere tale ha bisogno di una caratteristica che molte altre unicità non hanno: deve essere vivente. Deve quindi, nella sua organicità, avere una relazione cognitiva tra sé stesso e il resto che lo circonda.
La pietra, il masso, sono assimilabili al concetto di “unico” in quanto formano di per sé un unico riscontrabile oggettivamente. La Repubblica francese di Danton e Robespierre è un corpo politico unico. Ma, tanto il sasso quanto un nuovo Stato, per Aristotele non sarebbero mai stati etichettabili come “individui”.
Per gli studi orografici anche una montagna può essere un’individuo, così come la Terra nel suo insieme è “Gaia” quel pianeta che vive e che quindi è una individualità. C’è vita tanto su una collina quanto nell’interezza del pianeta. Ma il sasso, di per sé, spiace per lui, non può essere aristotelicamente classificabile come individuo.
Tanto più che il sasso, se spaccato a metà o in tanti pezzi, si tramuta in altri piccoli sassi; ma se frantumiamo un essere umano o un animale questi cessano di vivere e, quindi, viene palesemente meno la prima caratteristica che nella metafisica aristotelica si sostiene necessaria per il riconscimento dell'”individualità“.
Col passare dei secoli, l’individuo è stato avvicinato sempre di più al concetto dell’identità umana: la persona, che gli etruschi chiamavano “phersom“, mentre per i greci era il Πρóσωπον (“Pròsopon“), molto vicino ad essere un sostituto del Verbo biblico (la parola, il “lògos“), passa dall’essere considerata anzitutto l’interpretazione soggettiva dell’entità divina, dell’Essere in quanto tale, ad una più laica e modesta figurazione dei contorni umani.
Personalità, oggi, è l’insieme di quelle particolari espressioni singole e, per l’appunto, individuali che ognuno di noi possiede e sviluppa nel corso dell’esistenza.
La personalità è il carattere, l’emotività, quindi l’espressione di una componente fisiologica e comportamentale che, attraverso le relazioni con altri individui (persone) e con l’insieme della società e, si potrebbe dire, della vita in quanto necessità oggettiva che ci circonda e ci include, ci definisce esteriormente e che include una buona parte di quell’inconscio che rimane segreto tanto a chi ci guarda quanto a noi cerchiamo l’introspezione per risolvere le nostre nevrosi quotidiane.
Per Aristotele, dunque, l’individuo è la vita reale che si produce e riproduce nell’essere del singolo come materia e forma che si compenetrano e danno vita ad ogni tipo di espressione materiale e mentale.
Compresa l’arte, cui il filosofo di Stagira attribuiva una grande importanza per la conoscenza tanto dell’essenza umana quanto di quella ideale, visto che la separazione tra mondo reale e mondo delle idee è superata nella sua scienza teoretica. La statua è il prodotto di una individualità che, pur interna alla natura e da essa comunque derivante, rivela la natura dell’essere vivente, dell’umano in questo frangente.
Oggi noi potremmo ritenere che abbia il riconoscimento di individuo – seguendo la metafisica aristotelica – qualunque modernissimo prodotto della nostra mente. Non solo un blocco di marmo con le fattezze di un essere umano, ma anche una immagina generata dalla tanto discussa (e discutibile) Intelligenza Artificiale; oppure qualcosa di molto vicino al fantascientifico mondo degli ologrammi.
Se Aristotele avesse potuto vedere qualche puntata di “Star Trek” forse si sarebbe posto il quesito sulla composizione e scomposizione atomica dei corpi durante il processo del “teletrasporto” di Kirk e Spock dall’Enterprise alla superficie di uno dei tanti pianeti delle infinite galassie dell’Universo.
Perché scomposizione e ricomposizione della materia sono anche concepibili ma danno adito ad altri interrogativi: l’unità che viene meno e che, immediatamente dopo, si ricrea è la stessa, esattamente la stessa di prima? Oppure qualcosa è cambiato?
Facciamo l’esempio del sasso: se io rompo una pietra in tanti tocchetti, posso certamente rimetterla insieme, ma la strutturazione letteralmente atomica, il combaciare di quella unità precedente, per forza di cose, è infranto.
Io potrò rimettere insieme la forma della pietra, ma mai la sua essenza complessa, la sua individualità. Per cui, se ne conviene che ogni individuo è unico, tanto che si parli di un sasso inanimato, in quanto oggetto, cosa, materia propriamente intesa come aggregato di quella chimicofisicità rappresentata dalle molecole, quanto di un essere umano fatto di gambe, braccia, occhi, orecchie, testa, eccetera, ma pure di sentimenti, emozioni e percezioni che influenzano il nostro fisico, la nostra materialità.
L’individuo, come essere vivente, ha delle caratteristiche che la pietra non può avere: nasce, si sviluppa e poi finisce con la morte. Pensandoci attentamente, pur non avendo la pietra coscienza di sé stessa e non relazionandosi senzientemente col resto che la circonda, subisce il processo dell’interazione geofisica tra gli elementi.
La goccia scava la roccia e, dunque, anche ciò che appare qualitativamente più resistente di noi al passare del tempo, che qui potremmo definire come trasmutazione biologica dei nostri parametri vitali (giovinezza, maturità, vecchiaia di qualunque organo ci compone e, quindi, di noi nella nostra individualità e unicità), ha, prima o poi, un limite nel suo essere.
Un limite invalicabile, che non è dato dal destino, ma, molto più semplicemente, dalle relazioni che la materia ha con sé stessa. La pietra nei confronti della goccia, la goccia nei confronti della pietra. La pietra viene scavata lentamente, la goccia che vi si infrange sopra si disperde in mille particelle di idrogeno associate all’ossigeno che vanno a scontrarsi con altri elementi materiali.
Qui Aristotele avrebbe, in tutta probabilità, visto l’essenza del suo ragionamento sull’individuo: il divenire continuo della natura e, quindi, la trasformazione dell’essenza in sé stessa ancora e in altro ancora di più. La caratteristica umana, animale e vegetale del ciclo della vita rende quasi intuitivo il concetto aristotelico di “movimento“: la generazione è un passaggio dal non-essere all’essere (qui nella sua accezione piuttosto ontologica); l’evoluzione è, in quanto moto, trasformazione, “movimento” per eccellenza.
La morte, invece, corrompe la materia organica e, se mai ad Aristotele fosse stato possibile accedere alla moderna chimica e biologia, avrebbe convenuto con Lavoisier che tutto si crea ma nulla si distrugge. Quindi, in fin dei conti, la morte è movimento anch’essa, pur apparendo disgregatrice e, pertanto, l’opposto dell’individualità, dell’unicità, del riconoscimento delle proprietà singole e collettive di una forma-sostanza dell’esistente.
L’associazione primordiale tra finitudine e morte sta qui. Nel ritenere che la nostra fine come individui (come persone), sia un po’ la fine che fanno tutte le cose. A ben vedere, la nostra mortalità è più drastica della lenta trasformazione del sasso in pulviscoli.
Eppure tanto noi che rimaniamo cenere, quanto i piccoli pezzetti di terra che fuoriescono dalla compattezza delle pietre che si infrangono, torniamo a far parte dell’universalità della materia, del tutto. Di una meraviglia che non sappiamo spiegare, ma possiamo sempre continuare a studiare.
MARCO SFERINI
4 febbraio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria