Una volta per tutte… la flessibilità è utile solo ai padroni!

A domanda di Lilli Gruber, se e quanto le aziende italiane abbiano sofferto in questi ultimi mesi, per via della chiusura da Coronavirus, risponde il manager Franco Bernabè che...

A domanda di Lilli Gruber, se e quanto le aziende italiane abbiano sofferto in questi ultimi mesi, per via della chiusura da Coronavirus, risponde il manager Franco Bernabè che c’è necessità di quella flessibilità che consenta agli imprenditori di poter rilanciare le loro produzioni in completa sicurezza.

Dunque, come sempre, la chiave di volta di tutto il comparto di elaborazione e definizione delle merci e del mercato stesso la si scova nei meandri non del “rischio di impresa” ma, semmai, dell’aumento della precarietà nel mondo del lavoro.

Non contratti a tempo indeterminato: troppi oneri e pochi onori e il rischio di cadere in pericolose riemersioni di rivendicazioni di posti fissi che sono ormai un retaggio del passato e che, quasi, ci si è pienamente dimenticati dopo decenni di privatizzazioni dei principali settori produttivi del Paese, di liberismo sfrenato e di competizione tanto scorretta tra le imprese quanto tra queste e la parte veramente produttiva: la forza-lavoro.

Termini considerati desueti: oggi si parla incessantemente di “modernità” e “modernizzazione“, che in termini tecnologici potrà anche avere un qual certo significato, visto che la robotizzazione e la digitalizzazione dei processi produttivi avanza proprio per migliorare la filiera e renderla più soddisfacente nei confronti della domanda che viene dai mercati.

Ma, se moderno va riferito ad una estensione dei diritti dei lavoratori, ad un maggiore equilibrio tra padronato e maestranze, quindi tra imprenditore e operai, allora tutto rimane molto relativo. Anzi, particolarmente soggettivo, perché l’interpretazione diviene la regola, proprio a seconda del punto di vista da cui si osserva lo sviluppo del capitalismo tanto italiano quanto europeo.

Particolari  minacce all’impostazione liberista del lavoro fornita con l’incentivazione della flessibilità contrattuale, degli orari e delle dinamiche tutte interne all’azienda, del resto non arrivano nemmeno da quello che Confindustria si ostina a ritenere (insieme ai sovranisti) un governo schiavo della CGIL, con una chiara impronta “ideologica“, dunque. Come se quella proposta da Bonomi fosse invece una impronta priva di qualunque riferimento culturale ben delineato da precise linee guida dettate da una interpretazione antisociale del lavoro.

Per bocca del ministro Gualtieri, ma anche di Giuseppe Conte, il governo fa sapere che non intende affatto avere delle pregiudiziali nei confronti delle imprese (e quindi dei padroni). Anzi. Il governo tutto ciò che sino ad ora ha fatto, in piena crisi pandemica, l’ha fatto proprio per rilanciare il “sistema-Italia” che si fonda sul capitale privato. Nel momento in cui si fa cenno a qualunque tentativo di elaborazione di una tassazione patrimoniale per finanziare i costi che devono coprire le falle del pubblico generate dal Covid-19, pronta arriva la replica: nessuno pensa ad imporre imposte progressive sui grandissimi capitali italiani.

Tanto meno si ritiene necessario, al momento, ridurre l’orario di lavoro a 30/32 ore a parità di salario. Confindustria, dunque, può stare tranquilla: il governo procede con cautela, cerca la pace sociale più ampia e per farlo incontra, indubbiamente, le contrarietà delle ali più intransigenti di entrambe le parti: di sindacalisti come Aboubakar Soumahoro che reclamano altri “stati generali“, di tipo “popolare” e nuovi presidenti come Bonomi che incarnano la linea dura di una associazione padronale che ha cambiato solo la tinta. La faccia rimane sempre la stessa.

Da Bernabè a Confindustria, dai sovranisti ad Italia Viva, da Forza Italia ad altri pezzi di maggioranza parlamentare (alternativamente minoranza e viceversa, a seconda degli equilibri mobili che si mettono in moto nella Camere ballerine) si fa riferimento alla modernità della flessibilità nel mercato del lavoro per sviluppare nuove assunzioni e consentire così ai profitti compressi di riprendere ossigeno a tutto scapito di garanzie certe per la vita degli operai, di tutti coloro che sono alle dipendenze di lor signori.

Alla ampia schiera liberista, si aggiunge anche il presidente dell’INPS Boeri che (in una intervista concessa a “la Repubblica”) non fa mistero di essere favorevole ad una deregolamentazione nei confronti dei contratti a termine: meno lacci e lacciuoli. Flessibilità sulle regole che dovrebbero gestire la flessibilità di altre regole. Si tratta della “modernità“, se ancora non fosse chiaro. Ma si tratta, soprattutto, del legame che si vorrebbe stabilire tra l’aumento della flessibilità e l’aumento dell’occupazione.

Un po’ tutti gli economisti liberisti, i manager e i padroni, per giustificare queste pretese che ostacolano la rivendicazione dei diritti dei lavoratori e li comprimono sempre più, sono portati a definire un legame quasi scientifico tra la rimodulazione dei regimi contrattuali da fissi a flessibili e la possibilità di consentire ad un maggior numero di lavoratori disoccupati di accedere al mercato del lavoro stesso.

Ma sono proprio i dati empirici a dimostrare l’esatto contrario: lo sostengono numerosi studi, persino elaborati da fonti non sospette di marxismo rivoluzionario, come i guardiani del capitalismo: Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, OCSE. Sembrerebbe uno scontro fra sostenitori della maggiore regolamentazione del mercato del lavoro e, quindi, un ritorno ad una stabilità delle assunzioni, al contratto nazionale collettivo di lavoro e i proponenti un sempre più ampio margine di manovre (e di errore…) per la dirigenza imprenditoriale nella costruzione delle strategie di immissione nel mercato, di gestione dei livelli di concorrenza, della ricerca di nuovi ambiti in cui inserirsi per sviluppare progetti anche innovativi ma, sempre e soltanto, a tutto vantaggio del padronato.

Legge del capitalismo, del resto, non è la produzione finalizzata alla soddisfazione dei bisogni umani ma di semplici fette di mercato rimaste inascoltate, prive di riferimento produttivo.

Ne viene fuori, oltre ad una battaglia, ad una lotta di classe del tutto evidente, anche una vera e propria battaglia ideale, un confronto tra sindacati e padroni sul modello cosiddetto “di sviluppo” che si intende portare avanti. Vivaddio, una battaglia anche, finalmente, ideologica che dispone una dialettica aperta, senza infingimenti sui bisogni dei lavoratori da difendere e sui privilegi degli imprenditori da ridimensionare. Magari, da abolire…

Il mito della flessibilità amica dei lavoratori e della ricchezza addirittura nazionale si infrange nella realtà oggettiva dei numeri: questi ci dicono che laddove le si è concesso ampio spazio, hanno avuto la peggio tanto la forza contrattuale delle organizzazioni sindacali, il potere di gestione della composizione del salario stesso tramite le contrattazioni (divenute sempre più concertative e quindi sempre meno utili ai moderni proletari) e il potere stesso, quindi, di acquisto mediante i salari (compressi dalle “esigenze del mercato“).

Se ne conviene, alla fine, che la “modernità” del regime liberista della flessibilità non fa che stabilire vantaggi soltanto per le imprese, per le loro proprietà, per i padroni, poiché le risorse generate dalla produzione di determinate merci non vanno nella direzione del premio alla forza-lavoro degli occupati ma a chi, nello schema capitalistico, rappresenta il cumulatore di profitti e rendite conseguenti.

Meno regole, meno controlli sulle regole stesse, più dinamismo nella sostituzione dei lavoratori nella catena produttiva, non sono la ricetta per un rilancio del Paese e del mondo del lavoro: sono una rivoluzione, certo. Una rivoluzione che velocemente si è aperta tanti varchi nei diritti dei salariati da trent’anni a questa parte e che ha imposto una vera e propria “ideologia” del liberismo. Altro che governo schiavo dell’ideologia sindacale, accusato – ingiustamente! – di essere troppo spostato a sinistra.

E’ proprio il contrario. Ma è sempre, sempre, sempre troppo poco per chi ha come missione intrinseca al sistema di produzione economico dominante la disposizione di mantenere quei privilegi che non può cedere e che vengono fatti passare per la prima, grande utilità per lo sviluppo delle ricchezze di una Italia che ha, ad oggi, il secondo debito pubblico in seno all’intera Unione Europea.

Ma è debito pubblico… mica privato… Dunque, a noi i debiti, a loro i profitti.

MARCO SFERINI

19 giugno 2020

foto: screenshot USB

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