«Oggi inizia la fine della decadenza argentina». È con queste parole che, battendo di ben 12 punti il candidato peronista Sergio Massa, Javier Milei ha celebrato domenica sera la propria vittoria nelle elezioni presidenziali a Buenos Aires.
Contrario all’aborto, favorevole alla libera circolazione delle armi, «negazionista» sia rispetto al cambiamento climatico che al bilancio di sangue della locale dittatura militare, deciso a «risanare» la disastrata economia locale adottando il dollaro statunitense, Milei appare come il nuovo volto del populismo di destra dell’America latina.
Allo storico argentino Federico Finchelstein, docente alla New School for Social Research di New York e tra i maggiori studiosi del fascismo internazionale – tra le sue opere, La Argentina Fascista e Dai fascismi ai populismi, Mitologia fascista (entrambi per Donzelli) -, abbiamo chiesto di aiutarci a comprendere il profilo di questa figura.
Partiamo dal risultato elettorale: cosa ci dice della società argentina la vittoria di Javier Milei?
Credo che in primo luogo questo risultato ci parli del profondo degrado della cultura politica del mio Paese. L’affermazione di Milei descrive una sorta di rottura nei confronti di oltre quarant’anni di consenso verso il valore della democrazia e di profonda critica della dittatura. Ciò detto, da un lato Milei era il candidato di un populismo estremo, una destra radicale simile a quella già incarnata da Trump negli Stati Uniti e da Bolsonaro in Brasile che ha più di qualche elemento di contatto con il fascismo.
Dall’altro, si deve considerare il contesto sociale ed economico in cui si è arrivati al voto. Sono convinto che solo una minima parte dei suoi elettori ne condivida le idee o i programmi, ma è stato scelto perché è apparso come il candidato che poteva rappresentare al meglio il sentimento dell’«antipolitica». E questo, perché sul fondo c’è la situazione di profonda crisi che vive il Paese.
Come definirebbe il profilo politico del nuovo presidente?
In un quadro economico e sociale dominato da dati terribili, come quello relativo all’inflazione che supera il 140% o il fatto che il 40% degli argentini vive al di sotto della soglia di povertà, Milei ha puntato tutto su quanti volevano esprimere un rifiuto, la propria rabbia nei confronti dell’intero sistema politico. È grazie a questo, più che sul suo estremismo politico, la sua vicinanza al fascismo, il suo essere un populista di estrema destra che ha ottenuto la gran parte dei consensi che gli hanno consentito di vincere.
Lei paragona Milei a Trump e Bolsonaro, ma qual è il confine tra queste tendenze e la tradizione fascista europea o dell’America Latina?
Per definire tali fenomeni, nel mio lavoro utilizzo sovente un’espressione inglese, The Wannabe Fascists (gli imitatori del fascismo) per dire che si tratta di figure che esprimono una sorta di «vocazione» al fascismo, senza però ripetere le vicende del passato. Del resto, è propria questa una delle caratteristiche di un certo tipo di populismo.
Mi spiego: in Argentina il populismo è arrivato al potere con Juan Domingo Perón dopo la sconfitta del fascismo in Europa. E Perón stesso era un fascista che ha però rinunciato ad alcuni elementi centrali del fascismo per arrivare al potere in modo democratico. E quali erano questi elementi?
Perón rinunciò alla propaganda totalitaria, alla militarizzazione della politica, alla violenza, alla demonizzazione assoluta dell’avversario e, infine, alla dittatura. Ma se questo era il profilo del populismo del XX secolo, le figure che stanno emergendo ora rimettono in discussione alcune di queste caratteristiche, non esitando a fare ricorso alla violenza o, come è avvenuto a Washington e Brasilia, ai tentativi di Colpo di Stato.
Le elezioni argentine della scorsa domenica potrebbero essere riassunte come uno scontro tra il populismo classico, incarnato dal peronista Massa, e questo nuovo populismo a vocazione fascista di cui è espressione Milei.
Tra i temi agitati da Milei prima del voto, come da chi lo circonda, a cominciare dalla futura vicepresidente Victoria Villaruel, c’è la negazione dei crimini compiuti dalla dittatura militare che ha guidato il Paese fino al 1983. Come è possibile che tali idee trovino ascolto?
Da questo punto di vista, penso che ciò che accade in Argentina sia parte di un fenomeno globale. Guardiamo al tentativo di «normalizzazione» del fascismo in atto in Italia con Meloni, alla strategia di Vox in Spagna rispetto al passato franchista del Paese, alle posizioni dello stesso Trump che sembra evocare una realtà degli Stati Uniti precedente al movimento per i diritti civili degli afroamericani e, più vicino a Milei, al modo in cui Bolsonaro faceva riferimento alla dittatura brasiliana. In questo senso, Milei non fa nulla di originale.
Piuttosto, è giusto interrogarsi sul fatto che malgrado la fine del regime di Videla sia relativamente recente rispetto, ad esempio, al caso del fascismo italiano, il successo di Milei lascia intendere quanto sembra essersi ridotta la consapevolezza rispetto ai crimini di quella stagione. In realtà più che a un’affermazione del «negazionismo» sul nostro recente passato, si ha l’impressione che a dominare la scena sia una forma di apatia, cui le persone sono spinte a causa delle loro difficili condizioni di vita.
Accanto ai richiami al passato e alla cultura dell’estrema destra, quanto pesano le proposte all’insegna dell’«ultraliberismo» nel profilo del nuovo presidente argentino?
Sul piano economico le posizioni di Milei sono decisamente più radicali perfino rispetto a quelle sostenute da Trump o Bolsonaro e, aggiungerei, da un’altra dittatura della regione, quella cilena di Pinochet. Si tratta, come è stato scritto da più parti, di un «anarcocapitalista», un liberista ultrà che non solo demonizza lo Stato, ma che sembra aver fatto della sua distruzione la propria missione. Sintetizzando si potrebbe dire che le sue posizione lo pongono all’estrema destra anche rispetto agli ultraliberisti più accesi.
Con la vittoria di Milei l’Argentina è destinata a trasformarsi in un laboratorio della nuova destra internazionale?
Purtroppo credo che il mio Paese sia destinato prima di tutto a non apprendere nulla dai propri errori del passato, come dai recenti esempi negativi arrivati da realtà come quelle statunitense e brasiliana. E temo che ora a Buenos Aires non si ripeteranno solo gli stessi errori già compiuti da Trump e Bolsonaro, ma che, di conseguenza, il Paese precipiti verso un fallimento ancora più grave e pericoloso. Il problema è che tutto ciò rischia di condurre a nuove sofferenze per milioni e milioni di persone.
GUIDO CALDIRON
foto: screenshot tv