Il linguaggio, come principale forma di comunicazione, associato a tutte le altre forme di intuizione del limitrofo nostro garantite dai sensi della vista, dell’udito e dell’olfatto (oltre che del tatto), dovrebbe aiutarci nelle spiegazioni ed essere un complemento necessario per migliorare l’esistenza di ciascuno e di tutti.
Per l’importanza che riveste, il linguaggio è – come ogni cosa preziosa – stato oggetto, e lo è tutt’ora, di predazione, di abuso: lo si adopera smodatamente per garantirsi eccellenza e quindi dominio e predominio sugli altri.
Esistono, quindi, nella comunicazione verbale molte tipologie di comunicazione e non sempre si può affermare che queste siano affidate all’improvvisazione. Sovente si pondera il modo in cui esprimere dei contenuti, si studiano le tecniche per raggiungere con le proprie parole il maggior numero di menti pensanti, per far colpo su questo o quel gruppo di individui, per gestire, manipolare o magari, più semplicemente, per far arrivare le proprie idee all’esterno di noi stessi.
Il linguaggio verbale, come è naturale e insito nella nostra espressione quotidiana di vita, si somma alle gestualità, alle maschere che il nostro viso assumo di volta in volta, e trasforma il nostro essere individuale quanto il nostro trovarci a divenire “sociali“, quindi “animali politici” dentro il contesto della vita umana, del mondo compiutamente inteso come “villaggio globale“.
E’ un tratto comune dell’abitudinarietà umana quello di considerare molto poco il prezioso che risiede nei gesti più usuali e nelle parole più dette, ripetute e quindi convenzionali. Diventano uso comune, quindi consuetudini cui non si fa caso. Per questo quando un personaggio pubblico parla, ci si attende sempre qualche punto di sagacia nella dialettica, nel dibattito: ci si attende uno scontro che faccia emergere dal duello verbale concetti che ci trascinino all’approvazione con l’applauso o alla disapprovazione con scuotimenti di testa o fischi e altre amenità del genere.
Non si può dire che in questi decenni il linguaggio sia stato trascurato dal mondo politico italiano. Anzi. E’ stato protagonista di interventi di grandi esperti della comunicazione, richiesti dai politici di casa nostra per stravolgere proprio quello che veniva chiamato “politichese” e che ormai aveva il sapore stantio della logora ripetizione di parole vuote, quindi di frasi ormai fatte e strafatte. Ossia, tristemente banali.
La crisi della politica italiana si è potuta avvertire in tutta la sua indecenza fatta di degrado morale, (in)civile e anticivico, proprio nella spregiudicata ricerca dell’assegnazione da parte dell’emergente leader di turno del premio quale miglior comunicatore dell’anno o della legislatura.
Ma siccome di legislature complete non se ne vede l’ombra dai tempi dei tempi, si marcia a vista, di anno in anno.
Si è transitati, così, dalla geniale (maleficamente tale) mutazione tra rapporto dell’etica politica e del linguaggio messa in campo dal berlusconismo, che ha oltrepassato – tra l’altro – anche una serie di costituzionali premesse culturali, pilastri della democrazia repubblicana (memoria condivisa tra fascisti e antifascisti, equiparazioni tra pubblico e privato, legittimità di comportamenti illeciti sull’onda di una scia del craxismo di ultimo modello), al nuovo modello della comunicazione muscolare, aggressiva.
Una comunicazione che ha abbandonato, fin dai tempi della nascita dei partiti prima secessionisti ed ora fieramente sovranisti e italioti, il retaggio liberaldemocratico del riformismo socialista in materia di rapporto tra linguaggio istituzionale e vulgata popolare e ha instaurato una mistura di espressioni che, non poche volte, hanno imbarazzato la politica italiana nel suo complesso.
Dalla ricerca del voto cattolico mediante l’esposizione nei comizi di simboli religiosi e di testi (cosiddetti) sacri all’invocazione nei confronti delle figure divine come strumento di protezione del Paese da sciagure di qualunque tipo.
Nemmeno i più ligi democratici cristiani della prima fase della vita della Repubblica Italiana erano così espansivi nell’ostentare la loro fede: Andreotti pregava ogni mattina in chiesa e poi, molto laicamente, si recava sugli scranni del governo e proseguiva lì la sua opera politica; così Aldo Moro, Amintore Fanfani, Ciriaco De Mita.
Basta scorrere le immagini di quei decenni per ascoltare, indubbiamente, toni accesi contro l’aborto, per l’unità indissolubile della famiglia, quindi contro il divorzio: il tutto in perfetto stile democristiano, come logico che fosse per un partito che si richiamava a Cristo direttamente nel suo nome e simbolo.
Ma mai nessun rosario al collo o in mano al comiziante. Mai nessun appello in stile pontificio al “cuore immacolato di Maria“. Mai nessuna catena di santi urlata in piazza Duomo a Milano per mostrarsi e dimostrarsi credente, quindi cristiano e cattolico nella fattispecie.
Il linguaggio populista è, del resto questo: quello che il popolo vuole sentirsi dire e che applaude sperticatamente accompagnando il tutto con grida di gioia e ritmati cori inneggianti al nome del conducator del momento.
Poi esistono altri linguaggi, che fingono di essere ragionamenti creati tramite una ponderazione che vorrebbe magari pure allontanarsi dal pacchiano, dal grossolano metodo del capo per poter essere più istituzionale. Ma, nonostante tutti gli sforzi possibili, il richiamo della foresta è troppo forte e si finisce col dire in televisione, nelle vesti di presidente di una regione della nostra bella Italia, che sì, in fondo ‘sto Coronavirus s’è diffuso e si diffonde, ma che la colpa mica è nostra. E’ dei cinesi che sono meno attenti alla pulizia e alla nettezza rispetto ai veneti e che – confessiamocelo! – “mangiano i topi vivi!“
Ora… la frase può essere uscita male. Vogliamo dire che è una “metafora” (per quanto sembri invece una affermazione vera e propria)? Diciamolo. Ma nulla toglie al fatto che il linguaggio continua a creare guasti enormi e chi per primo ha, come molti di noi, una attenzione particolare all’utilizzo delle parole, dovrebbe cominciare a fare politica proprio adoperando un linguaggio che sia rivoluzionario nel vero senso del termine: che rivoluzioni l’andazzo odierno, che lo costringa a cambiare radicalmente e che porti le abitudini verbali a riprendere quella logica del pensiero che deve derivare dalla ponderatezza dei fatti e non dal mero istinto di pancia.
Il linguaggio è frutto del nostro essere sociale. Visto come si è imbarbarito, ne consegue che la vita che conduciamo è, se non barbarica, almeno un poco primitiva sul piano delle relazioni quotidiane, nel nostro provare a sopravvivere senza salari adeguati, senza tutele che siano tali e senza un futuro degno di nota.
Cambiare il linguaggio può salvarci dalla presunzione, dalla cattiveria gratuita e può aiutarci a migliorare il nostro senso critico. Altrimenti rischiamo di finire noi in tante piccole trappole per topi…
MARCO SFERINI
29 febbraio 2020
Foto di Rudy and Peter Skitterians da Pixabay