La storia di Cecilia Sala è, come molte altre che hanno riguardato sia donne sia uomini finiti tra le grinfie di poteri che si contendono interessi enormi riguardo l’egemonia locale o globale in fatto di rapporti economici e militari, degna di una storia spionistica. Da un lato c’è l’Iran degli ayatollah che vuole libero il ricercatore Mohammed Abedini, fatto arrestare in Italia da una soffiata statunitense su presunte attività terroristiche; dall’altro c’è la giornalista italiana che, a quanto si sa, sarebbe stata arrestata per presunte violazioni della legge islamica.
La presunzione di innocenza qui vale come il due di coppe quando la briscola è bastoni. Tutto è presunto tranne l’innocenza: Washington accusa Abedini di aver oltrepassato le norme dell’International Emergency Economic Powers Act, mentre Teheran rimane ancora più sul vago per quanto riguarda le accuse mosse a Cecilia Sala. Sta di fatto che l’Italia è nel mezzo di una crisi diplomatica che la coinvole a pieno titolo e che è veramente particolare, anche se non unica nel suo genere. Iran e Stati Uniti d’America, infatti, non hanno relazioni diplomatiche da un bel pezzo.
Ergo, Roma si trova con un cerino acceso in mano, con cui rischia di bruciarsi. Nella convocazione vicendevole dei rispettivi ambasciatori si ottiene come risultato quello di redarguire i propri governi nel trattare umanamente i due detenuti: ed anche qui ciò che dovrebbe essere scontato, ossia un regime carcerario non disumano, finisce con il confermare tutte le aspettative che in questo frangente ci si attendono. Da un lato da una dittatura teocratica che nei confronti delle donne conserva le più ampie riserve in quanto a diritti civili ed umani.
Dall’altro quel mondo occidentalmente democratico che, tuttavia, nelle prigioni ha uno dei suoi talloni d’Achille e non può certo dirsi migliore di altri paesi che vengono accusati di torture e di violazione delle più elementari garanzie per presunti rei e per detenuti condannati in via definitiva. Storicamente, ormai, basta pensare alla prigione di Guantanamo a Cuba che, forse, può avere il carattere di un esempio limite, ma che, proprio per l’eccezionalità dei tempi (la guerra al terrorismo), avrebbe dovuto essere un elemento di discrimine rispetto al giustamente lamentato imbarbarimento antisociale e incivile nei paesi con governo islamico.
Sono molteplici i casi in cui le detenzioni arbitrarie nelle democrazie europee e nordamericane sono balzate al disonore delle cronache per il modo in cui si sono rivelate assere veri e propri abusi nei confronti dei prigionieri, per l’appunto trattati come reclusi quasi di guerra e non invece come persone civili a cui riservare – peraltro ugualmente ai soldati che godono delle garanzie delle convenzioni internazionali – i trattamenti umani contemplati nei trattati sottoscritti in grembo all’ONU. L’Iran accusa l’Italia di aver obbedito ad un ordine di Washington. E probabilmente ciò è vero.
Ci accusa inoltre di aver incarcerato Abedini prima in un istituto di pena riservato a presunti terroristi dell’ISIS, nemici giurati di ogni iraniano fedele alla Repubblica islamica. D’altro canto, Roma accusa Teheran di trattare Cecilia Sala con metodi detentivi disumani. Da quanto riferito dalla giornalista alla madre, si troverebbe in una cella di punizione (le uniche celle singole, visto che nelle carceri iraniane esistono quasi soltanto camerate dove vengono ammassati i detenuti comuni) e sarebbe costretta a dormire per terra.
Sarebbe inoltre, pratica affatto nuova che ricorda quello che accadde a Silvia Baraldini nelle prigioni a stelle e strisce, deprivata del sonno mediante il mancato spegnimento della luce nella sua cella e costretta a non dormire da ripetute chiamate del personale del carcere tanto durante le ore diurne quanto durante quelle notturne indistinguibili dalle prime. Basterebbe già questo per configurare un regime detentivo molto vicino alla tortura. Le parti sono entrate in una fase di “reciprocità” in cui si scambiano tanto le accuse quanto le difese: sembra di assistere ad un triste balletto di punti e contrappunti dove, alla fine, non si arriva ad un bel niente di risolutivo.
Ma perché gli Stati Uniti hanno tanto a cuore la sorte di Abedini? Che minaccia rappresenterebbe per loro? La risposta è tutt’altro che facile, visto che siamo in un paludato terreno di mezze verità, di sentito dire e di sussurri e bisbigli diplomatici: per cui si sà soltanto quello che trapela e ciò che passa dagli usci mezzi aperti delle porte (nonché dai canali informatici) è troppo poco per avere un quadro chiaro della situazione. Si dice che Abedini avrebbe fatto pervenire alle autorità del suo paese «componenti elettroniche per armi letali». Si tratterebbe, quindi, di un vero e proprio caso di spionaggio industrial-militare se fosse così.
Nemmeno si può ritenere di trattare questo intricato caso dal punto di vista meramente etico: sarebbe molto semplice rimproverare a Washington di aver fatto questo e anche di peggio nel corso della sua storia moderna, con tutte le guerre a cui gli USA hanno partecipato e in tutte quelle di cui sono stati promotori, protagonisti e in cui non sempre hanno brillato per acume, per strategia e, infine, per quella vittoria finale che si sarebbero attesi dopo anni – a volte anche decenni – di occupazione di intere nazioni conquistate col pretesto della guerra al jihadismo che voleva sovvertire l’ordine mondiale.
Purtroppo, il caso Sala-Abedini rischia di diventare un complicatissimo, ingarbugliato ginepraio posizionato a metà tra le trincee inamovibili di canali diplomatici che, al momento, si scontrano senza incontrarsi apertamente e si parlano per interposta nazione (cioè l’Italia) mentre tutto intorno le molteplici dinamiche internazionali continuano a svilupparsi nei conflitti che divampano in Medio Oriente, così come in Ucraina e nella terza contesa mondiale che ha il suo punto di criticità geopolitico-militare in Taiwan.
Il 16 dicembte scorso il Dipartimento di Stato americano ha pubblicato un rapporto di accusa dettagliato su Mohammad Abedini Najafabadi. Se ciò che viene contestato al ricercatore iraniano fosse vero, rischierebbe persino l’ergastolo secondo la giustizia statunitense. Il fatto che Washington chieda a Roma di non concedere nessuna misura di detenzione domiciliare, per evitare pericoli di fuga, è un segnale preoccupante: potrebbe significare che davvero c’è qualcosa di vero sul piano spionistico e che, quindi, Abedini potrebbe essere non fisicamente ma intellettivamente pericoloso, per il suo lavoro scientifico.
Questa, come altre storie molto simili, è una narrazione che deve per forza includere una sorta di drammatizzazione delle reciproche paure, dei timori più ancestrali di uno Stato di essere soppiantato da altri, di diventare irrilevante nella contesa mondiale e, anche e soprattutto nella collocazione multipolare moderna, di essere non più l’attore principale nel contesto più propriamente regionale o, se vogliamo, continentale. Gli effetti dei cinicissimi giochi di guerra tra i poli del liberismo e dell’imperialismo a fasi alterne ricadono, come ovvio, sulle ultime pedine della scacchiera e su innocenti che non hanno alcun ruolo in tutto questo.
Cecilia Sala, molto più di Najafabadi, sembra essere l’interprete perfetta di una storia kafkiana che, però, nella sua assurdità ha anche la sua tremenda, antieroica fondatezza: nessuno può pensare di chiamarsi fuori se non mediante un sottile gioco delle parti in cui devono combaciare le tessere di un mosaico la cui forma ultima è sconosciuta a quasi tutti i giocatori. Questo perché ognuno ha in mente una soluzione differente, seguendo il proprio interesse e non le regole date dai trattati internazionali, dalla tradizione democratica occidentale così come dal presunto rispetto dei diritti umani nel nome di un Dio piuttosto che di un altra divinità.
Di sicuro c’è soltanto l’apertura di un nuovo fronte di contesa tra due parti che sono in guerra fra loro da molto tempo e che non perdono occasione per sottrarsi informazioni su armamenti, su commerci di guerra, sul nucleare, sulle energie e sulle scoperte ultime in differenti settori scientifici al servizio di un bellicismo che è fonte di potere, di guadagni sulla pelle dei popoli che subiscono, subiscono, subiscono. Prima gli effetti dei tagli delle spese sociali a tutto vantaggio dell’economia di guerra; poi le bombe che piovono loro sulla testa, i missili sparati dai droni, le invasioni dal cielo, dal mare e da terra.
Non c’è giusta causa che tenga qui. Nessuno ha completamente ragione e nessuno ha, purtroppo, nemmeno completamente torto. Perché gli occidentali non mentono quando denunciano le illiberalità dei regimi come quello iraniano e gli ayatollah nemmeno quando accusano gli Stati Uniti d’America e i loro lacché di voler essere ad ogni costo i padroni del pianeta, perpetuando non solo l’idea, la sensazione e la percezione, ma la tradizionale storia del colonialismo euro-atlantico nei confronti dei tanti sud del pianeta: dall’America Latina all’Africa, dal Medio Oriente all’Asia.
Quindi, il tremendo risvolto disumano di questo dramma in cui è finita Cecilia Sala ha il suo riscontro perverso nelle contraddizioni viventi di uno scontro tra poteri imperiali che si fanno la guerra in permanenza: alcune volte direttamente, altre volte per procura; altre volte ancora sfruttando conflitti già esistenti per farne la leva di nuovi ampliamenti della contendibilità di vaste aree del pianeta da destinare allo sfruttamento delle risorse a solo proprio, esclusivo vantaggio. Che il governo Meloni sia in grado di gestire quasta delicatissima partita è difficile pensarlo, ma è auspicabile augurarselo. Una volta tanto.
Perché vanno rimessi al centro i diritti umani anzitutto: il diritto di Cecilia Sala di essere libera il prima possibile; il diritto di Mohammad Abedini di poter affrontare, con giustizia, le accuse che gli vengono mosse. Il tribunale non può essere altrimenti se non quello del diritto internazionale e delle leggi dei singoli Stati. Questo dovrebbe rassicurare in qualche maniera ma, poi, se si riflette sulle legislazioni esistenti, ci si renderà conto che non c’è da essere molto più sereni rispetto alla condizione attuale dei due detenuti: una rischia pene altissime in carceri note per i loro trattamenti disumani.
L’atro rischia l’ergastolo in una nazione iranofoba, islamofoba, in cui sta per insediarsi un presidente che ha già mostrato tutta la sua ostilità nei confronti del Medio Oriente o, quanto meno, verso quella parte della regione che non vuole finire sotto il dominio americano e che, per questo, viene trattata alla stregua delle peggiori organizzazioni terroristiche dell’ieri e dell’oggi.
MARCO SFERINI
3 gennaio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria