“Storia della Resistenza” di Flores e Franzinelli edito da Laterza, uscito in questi giorni: un testo su cui riflettere in particolare sul suo elemento distintivo di fondo: di collocarsi oltre il fondamentale lavoro di Pavone d’inizio anni ‘90.
Nel libro di Pavone (saggio sulla moralità della Resistenza) s’individuavano tre livelli di Resistenza: quella della Liberazione nazionale, quella del riscatto sociale e quella della guerra civile.
Il lavoro di Flores e Franzinelli è percorso, invece, da un filo rosso: quello di considerare come guerra civile la fase compresa tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945.
Una guerra civile percorsa da una categoria di fondo, quella della “non legittimità” nell’origine del potere statuale del fascismo e quindi dalla necessità “storica” del combattere quel potere distinguendo tra Nazione (Patria) e Stato.
Il ventennio era stato così percorso da una lotta antifascista sicuramente minoritaria nei numeri e i cui protagonisti anch’essi divisi nelle opzioni ideali proprio secondo lo schema poi usato da Pavone.
Al momento dello scoppio della guerra era entrata in scena, nella coscienza di molti, la categoria del “tradimento”: tra grandi tormenti ideali infatti l’antifascismo italiano era stato percorso dalla convinzione che fosse necessaria la sconfitta militare per eliminare il fascismo.
I comunisti (e anche gli azionisti, mi pare) non nutrirono dubbi al proposito (alcuni, pur nel dramma, tirarono un sospiro di sollievo quando iniziò l’operazione Barbarossa) ma in altri settori dell’antifascismo sicuramente il problema si pose.
La questione del “tradimento” entrò potentemente nel dibattito dell’epoca alla data dell’8 settembre: la “fedeltà” era posta su tre piani, quella della continuità antifascista per chi l’avesse conservata con coerenza durante il ventennio, quella del mantenere il giuramento al Re (nonostante la fellonia della fuga), quella di stare dalla parte della “Nazione (Patria) ” che era stata e tornava ad essere quella fascista.
Una generazione intera si trovò di fronte ad un vero e proprio “spartiacque morale” e dopo vent’anni di fascismo ci fu chi trovò intelligenza e coraggio per compiere una scelta che poteva anche essere considerata come contraria alla Patria.
Esaminando i vari aspetti riguardanti le scelte e le opere resistenziali Flores e Franzinelli affrontano questo quadro con grande vigore: anche i punti che, sotto l’aspetto di una certa agiografia possono essere considerati come “scomodi”sono valutati tenendo sempre ben conto l’elemento della reciprocità dell’accusa di aver tradito lanciata da entrambe le parti in lotta.
L’appoggio all’invasione tedesca è la ragione per la quale la Repubblica di Salò non può essere considerata parte della continuità dello Stato: aver intuito questo elemento contribuendo al riconoscimento del governo Badoglio come governo legittimo nella linea di prosecuzione dell’identità statuale è stato il grande merito del CLN (o almeno della maggioranza dei suoi componenti) e della “svolta” togliattiana.
La scelta del riconoscimento del governo Badoglio e la formazione della Resistenza consentirono una rilegittimazione dello Stato assolutamente decisiva per l’avvenire, anche se la legittimazione della Patria fu conquistata soltanto al momento della Liberazione delle grandi città del Nord da parte dei partigiani
Non si tratta di una distinzione capziosa: il 25 aprile Stato e Patria si ricongiunsero ponendo le basi per la formazione di una democrazia posta al di fuori da un binario di mera prosecuzione con quello che era stato l’antico Stato liberale frutto dell’incompleto Risorgimento (come ben intuito da Gramsci nei “Quaderni”).
L’esito del 25 aprile consentì di ricostruire la democrazia e arrivare nel giro di pochi mesi a libere elezioni nel marzo – aprile 1946 quelle amministrative, il 2 giugno elezioni per l’assemblea costituente e referendum istituzionale.
Le contraddizioni non mancarono e il testo di Flores e Franzinelli ne esamina alcune particolarmente significative ma rimane il dato prevalente di uno Stato ricongiunto alla Nazione (Patria) che poteva ben essere considerato, a questo punto, come sorto dalla Resistenza.
A questo punto però sorge una domanda rivolta nel senso di approfondire il concetto di rilegittimazione dello Stato.
La Repubblica è nata solo dalla Resistenza, sciogliendo il nodo del “tradimento” oppure anche dalla crisi del tipo di “Stato – Nazione” (Patria) costruito dal fascismo?
La crisi del fascismo colpì più la nazione (Patria) che lo Stato di cui molto fu conservato: l’Italia è stata com’è ben noto, zona di frontiera tra il blocco occidentale e quello orientale, ed è stata attraversata al suo interno da una sorta d’invisibile confine che ne ha condizionato lo sviluppo democratico addirittura dividendo il sistema politico in due sottosistemi: l’arco costituzionale e l’arco di governo al riguardo del quale vigeva la “conventio ad excludendum” rivolta agli opposti estremismi anche se PCI e MSI furono di volta in volta associati alla maggioranza (Governo Tambroni 1960, governo Andreotti 1978).
Il tipo di democrazia repubblicana disegnato dalla Costituzione fu pensato come adatto a quel tipo di situazione mentre al momento della caduta del Muro si era ritenuto che ormai si potesse superare quel tipo di assetto e riunificare il sistema politico “sbloccandolo”.
Invece il tema della rilegittimazione dello Stato e la differenza tra il concetto di Stato e quello di Patria erano ancora d’attualità e non risolvibile in una prospettiva sovranazionale come molti avevano ritenuto potesse essere possibile.
Oggi si può dire che tutto sommato è ancora valido il tipo di mediazione raggiunto dai grandi partiti di massa prima tra l’8 settembre e il 25 aprile e poi tra il 25 aprile 1945 e il 18 aprile 1948.
Una mediazione tutto sommato ancora valida perché la Repubblica è quella nata dalla Resistenza riunificando con grande difficoltà e molte incertezze Stato e Nazione (Patria).
La sparizione dei partiti che avevano realizzato, essenzialmente attraverso il lavoro della Costituente, quel momento unitario non ha lasciato comunque nessuna nuova possibilità di legittimazione per un’eventuale “Seconda Repubblica” che si era pensato di fondare modificando il sistema elettorale e aderendo al processo di presunta unificazione europea sull’onda dell’euforia del grande equivoco della “fine della storia”.
La Resistenza come fatto fondativo e costituente invece non ha avuto eredi stati e l’eterna transizione che è seguita all’89 ne è ancora testimonianza.
Tentare di modificare quest’assetto primario magari cambiando la Costituzione ha via via causato una fragilità del sistema che dovrebbe rappresentare l’immediata preoccupazione di un ceto politico sempre più in difficoltà nella sua capacità di esprimere assieme identità per i diversi soggetti e valori riunificanti che rendano Stato e Nazione (Patria) credibili agli occhi delle nuove generazioni.
FRANCO ASTENGO
27 dicembre 2019