Per cinema indipendente, secondo l’enciclopedia Treccani, “si definisce un insieme di modalità realizzative, produttive e distributive, e un ambito creativo il cui sviluppo avviene al di fuori, e spesso in alternativa, alla logica del mercato cinematografico ufficiale”. Un cinema, forse anche per questo, che ad ogni latitudine riserva sorprese e racconta storie inimmaginabili per i grandi circuiti. In Italia, percorrendo più strade, uno degli autori più attivi è Daniele Ceccarini (La Spezia, 7 luglio 1983) che mi concede con grande disponibilità questa intervista.
Daniele è, tra l’altro, regista del bellissimo documentario Citto dedicato a Francesco Maselli che abbiamo provato a raccontare nella nostra chiacchierata, senza sapere che il grande regista ci avrebbe salutato solo dodici ore dopo. Ciao Citto.
Oggi chi fa cinema indipendente parte spesso dal web. Tu come hai iniziato?
È un’amore che ho sempre avuto. Fin da bambino ho iniziato a guardare tantissimi film su ogni tipo di supporto, soprattutto al cinema, e da lì è nata questa passione. Uno dei primi regali che ho chiesto ai miei è stata una piccola “telecamerina” che ho usato per riprendere qualsiasi cosa, fino a logorarla. Ho fatto così le prime sperimentazioni. Poi ho continuato a guardare cinema, perché prima di farlo bisogna conoscerlo. Ho quindi studiato cinema e fotografia a Milano, per poi cominciare a realizzare i primi corti, i primi esperimenti, le prime cose un po’ più compiute, un po’ più definite, anche grazie a collaborazioni e amicizie che continuano ancora oggi. Ho studiato anche Scienze politiche.
Ti ha aiutato?
È la prima volta che ci penso. In qualche modo si. Sicuramente. Ogni studio ti da qualcosa in più nella visione e nella comprensione della realtà. Anche in termini di consapevolezza.
Tra le opere realizzate, hai diretto diversi film con Mario Molinari, milanese di nascita, savonese di adozione. Da Gerda, sulle difficoltà nella ricerca di un lavoro da parte di un fotografo affetto dalla sindrome di Asperger (nel cast anche Alessandro Haber), a Tonino, sul grande Tonino Guerra raccontato dai suoi luoghi e dai suoi amici, fino ad arrivare a Il nome del padre, documentario che ha come protagonista Udo Surer, avvocato tedesco, figlio di Josef Maier, ufficiale delle SS tristemente attivo in Italia. Storie importanti, premiate anche in diversi festival. Dirigere a “quattro mani”, o forse sarebbe il caso di dire a “quattro occhi”, è più o meno difficile? Torneresti a lavorare con Mario?
Dirigere insieme non è una cosa scontata e in assoluto non è facile perché devi far convergere punti di vista, visioni, idee, ma può essere anche un’opportunità se si riesce ad arrivare ad una visione e ad una sintesi comune. Dipende molto dalla persona con cui ti trovi, innanzitutto se te la scegli o se te la impongono.
Nel caso specifico con Mario ho lavorato benissimo. È un grande professionista e nella visione dei film ci siamo sempre trovati intuitivamente, senza mai avere grosse discussioni. Ci siamo sempre trovati bene, anche dal punto di vista umano. Spero ci sarà in futuro l’opportunità di lavorare di nuovo insieme. A me farebbe piacere, spero anche a lui.
Raccontavi prima della tua passione per il cinema. Si vede anche dai film che fai, non ultimo Citto, che portano una dichiarazione d’amore per la “settima arte”. Mi hanno incuriosito, in tal senso, anche i tuoi documentari sul cosiddetto “cinema di genere” italiano da Bava Puzzle a Spaghetti alla Martino fino ad arrivare a Da qualche parte nella giungla. Cosa ti piace di quel cinema che Quentin Tarantino, dall’altra parte dell’oceano, ha rivalutato, ma che in Italia è un po’ snobbato?
Rappresenta un periodo importante per il cinema italiano sia dal punto di vista produttivo, perché permetteva all’Italia di avere una produzione competitiva seconda solo agli Stati Uniti, sia per i contenuti. Raccontando questi autori ho anche capito l’importanza del collettivo, conoscendo tanti collaboratori di Sergio Martino, da Antonello Geleng a Giancarlo Ferrando, la cui ultima intervista è proprio in Da qualche parte nella giungla. C’era molta professionalità in quel cinema, non solo nel regista, che per certi versi rimane il Deus ex machina, ma anche tra i collaboratori, i tecnici, le maestranze.
Ho inoltre amato la padronanza di questi registi dal punto di vista stilistico. La capacità di girare con eleganza molti film, quelli che erano più di “cassetta” un po’ meno, ma se pensiamo alla parte thriller di Martino, quella più amata all’estero, si coglie un’eleganza e una padronanza importante del mestiere.
Io amo il cinema di contenuto, ma il cinema se fatto bene è bello tutto. Quei film sono, non a caso, rimasti nell’immaginifico di tutti noi.
A proposito di contenuto penso ad un tuo film per me bellissimo che è Dipende tutto da te. Nello stesso periodo in cui Ken Loach mette il dito nella piaga descrivendo la vita di un corriere, tu fai altrettanto raccontando la storia di un rider, interpretato da Matteo Taranto, lavoro divenuto uno dei simboli del periodo più duro del Covid. È uno dei pochi film sul lavoro.
Quel film nasce proprio come necessità ed esigenza di raccontare il mondo del lavoro. Ho scelto un rider perché rappresentava, per me, al meglio quella che è la difficoltà e la disumanizzazione di questa società in cui il lavoratore perde quasi la sua identità e diventa un algoritmo. Questo succede in maniera molto subdola perché siamo noi stessi gli artefici di tutto questo, perché siamo noi ad ordinare e non ci chiediamo se chi ci porta la pizza ha tutelati i diritti. Il rider, quindi, come simbolo del lavoro sfruttato. Il tutto grazie a Matteo Taranto, un ottimo professionista, che ha interpretato il rider con grande sensibilità. Son contento di averlo fatto con lui. Per me è un po’ la strada, quello che vorrei continuare a fare.
Perché al cinema se ne parla così poco?
Penso perché è un argomento scomodo, problematico. Se ne parla pochissimo in generale, se non in maniera strumentale. Non viene mai affrontato in maniera profonda. Il cinema ha la capacità di poterlo fare, ma si tende a preferire argomenti se non più facili, non così complessi e ricchi di conflittualità.
E poi c’è Citto…
Citto è sempre stato un regista che ho amato molto, un riferimento dal punto di vista cinematografico. Ho pensato fosse necessario raccontarlo, non solo come regista, ma come intellettuale, come militante.
Mi ha colpito fin dall’inizio da quando ci siamo incontrati la prima volta con la sua forza, la sua fiducia in un mondo migliore. Questa esigenza di combattere e di continuare a lottare mi ha trasmesso tanta fiducia e credo ci sia bisogno di questi messaggi, che detti da lui hanno anche un’altra importanza, un altro valore. Spero che questo documentario possa portare con se il messaggio di Citto della sua vita cinematografica, ma non solo. Della sua forza, che spero di essere riuscito a trasmettere.
Il documentario è stato, inoltre, una grande sfida perché è un autore complessissimo, parlare di lui vuol dire raccontare tutto il Novecento, tutti i suoi incontri Antonioni, Moravia, Visconti. Non è stato semplice, ma è stato bello.
Non a caso le interviste che hai fatto ripercorrono il Novecento, Citto Maselli fece proprio un film intitolato Frammenti di Novecento…
Si, l’idea era questa. Finito il film ero molto teso per il suo giudizio anche perché non è uno che si fa dei problemi a dire quello che pensa. Poi mi ha chiamato per dirmi che “ci si rivedeva” e che gli era piaciuto molto. Ero davvero contento. Il primo giudizio era stato il suo.
C’è un suo film cui sei più legato?
A me è sempre piaciuto molto, tra i tanti, Storia d’amore. Per la capacità di raccontare le vite di questi ragazzi della periferia con una delicatezza che pochi hanno. È entrato in quelle vite e le ha raccontate. Come hanno detto Citto e Valeria Golino (la protagonista del film, nda), ha una forza politica non esplicita, anche se è un film molto politico, nel senso più alto del termine.
Nel tuo ricco 2022 hai realizzato anche Siamo qui, siamo vivi, film presentato a Berlino, che riprede le pagine, a lungo dimenticate, di Alfredo Sarano che durante le persecuzioni delle “leggi razziali” salvò la vita a numerosi ebrei. Hai fatto tua la riflessione sul “pericolo oblio” di Liliana Segre?
Lilia Segre quando parla è sempre molto lucida e molto incisiva e mi rispecchio in quello che ha detto. Quando l’ho incontrata per il documentario è stato davvero emozionante. È venuta anche alla prima che abbiamo fatto a Pesaro dove è ambientata la storia e ci ha detto che le era piaciuto molto. Queste cose non le considero mai scontate.
Il film ripercorre una storia molto bella che ha una sua unicità con un risvolto positivo. Parte dal diario di Alfredo Sarano riscoperto dopo settant’anni dal giornalista Roberto Mazzoli che ne fa un libro e da quello nasce il documentario Siamo qui, siamo vivi. Si intrecciano in questa storia le vite di Alfredo Sarano, del sottufficiale tedesco Erich Eder e del padre francescano Sante Raffaeli. Senza sapere vicendevolmente della scelta degli altri, queste tre figure, seguendo la loro idea di bene, prendono una decisione che porta al salvataggio degli ebrei e delle trecento persone rifugiate nel convento del Beato Sante a Mombaroccio. Senza la scelta del militare tedesco, probabilmente, sarebbe finita come a Montecassino.
Quello che mi ha colpito è la forte attualità di questa storia. Noi scegliamo sempre, siamo sottoposti a scelte quotidiane, e le nostre scelte, spesso fatte con leggerezza, si intrecciano con quelle degli altri.
Schematizzando molto, si possono individuare tre filoni del tuo cinema: la memoria, di cui abbiamo appena parlato, il tema del lavoro, precario e ricattabile, e la tua passione per la “settima arte”. Hai mai pensato di realizzare un lungometraggio a soggetto?
Hai fotografato, meglio di me, i miei tre filoni, che sono già abbastanza eterogenei, e penso che la mia strada sia quella, anche Le margherite amano il sole con Erika Blanc riguarda una memoria, ma non nego che se ci fosse un’opportunità, un progetto, una storia che mi appassiona potrei pensarci. Tengo la porta aperta.
Hai un regista cui ti sei ispirato? Abbiamo parlato di Citto, ma nei tuoi film c’è anche un po’ di Neorealismo, di Ken Loach…
Sono stato influenzato anche dal cinema che ho visto e studiato, ma quelli che hai citato sono i miei riferimenti, magari inconsapevolmente seguo anche altri, ma Ken Loach e Citto Maselli, per la loro capacità di affrontare e raccontare il presente e le sue contraddizioni, per quel “cinema delle persone”, tipica del Neorealismo, mi ha sempre appassionato. Con grande umiltà i riferimenti sono questi.
Hai scritto un libro sul critico Enzo Ungari e diretto in più occasioni Matteo Taranto. Spezzini come te. Che rapporto hai con la tua città?
Ho un rapporto di amore, un forte legame. Non lo nascondo anche se ormai vivo a Milano.
Di Matteo abbiamo parlato prima, sono nate delle belle collaborazioni e spero ce ne saranno altre in futuro. Per Ungari, anche se non l’ho mai conosciuto perché è morto giovanissimo, aveva anche collaborato con Bertolucci, ho sempre avuto una grande ammirazione e quel libro non è una biografia, ma un saggio sulla sua analisi critica. Ho cercato di riassumere i suoi concetti.
Comunque Spezia la porto nel cuore.
Progetti per il futuro?
Si, ma non ti dico cosa. Sono scaramantico. Appena partirà ti informerò.
redazionale
Immagini gentilmente concesse da Daniele Ceccarini