Una sinistra senza radici, insofferente delle identità

Sinistra. Usiamo parole come antiliberisti, progressisti, alternativi perché ci appare problematico definirci socialisti, comunisti, libertari. Senza aggettivi non c’è identità

Il 4 dicembre 2016 è stata vinta una battaglia, ma la vittoria della democrazia non sarà completa fino a quando non sarà rinnovata la rappresentanza con una legge elettorale costituzionale, che privilegi la rappresentanza e ristabilisca un controllo sul potere esecutivo. In questa direzione la sentenza n. 35/2017 della Corte Costituzionale, che conferma e rafforza i principi della sentenza n. 1/2014 è un altro fattore positivo.
Se le leggi elettorali sono “costituzionalmente necessarie” esse debbono essere anche “necessariamente costituzionali” e il controllo di costituzionalità può essere provocato prima della loro concreta applicazione. Non dovrebbe ripetersi più, malgrado l’impervia via del controllo di costituzionalità in via incidentale, la beffa di lasciare ai loro posti parlamentari eletti con una legge incostituzionale.

Tuttavia la domanda di partecipazione sia di chi si era impegnato in comitati e movimenti per il NO, sia dei cittadini elettori, tra i quali i giovani sono stati decisivi, non ha ancora trovato una risposta politica. A sinistra in particolare, per quanto generica sia questa locuzione: indica una posizione nello spettro politico, ma non una direzione di marcia e una proposta programmatica o un sistema di valori, che la caratterizzi. Una sinistra senza aggettivi non ha un’identità, ma appena se ne adotta qualcuno rischia di alimentare divisioni.

Eppure non dovrebbe essere strano, visto l’insuccesso nel nostro paese delle ammucchiate imposte solo dalle leggi elettorali, (esempio, tra gli altri, la sinistra Arcobaleno del 2008), pensare che la sinistra possa rinascere soltanto se diventa ricomposizione dei suoi filoni ideali storici socialista, comunista e libertario, con coscienza che non c’è futuro senza la salvaguardia ambientale del pianeta e la conquista dell’eguaglianza obiettivo ineludibile, che noi abbiamo addirittura consacrato nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione.

Non possiamo continuare ad usare, come sinonimo, la parola antiliberista o e proclamarci alternativi o progressisti perché ci appare problematico, secondo i contesti, definirsi socialisti o comunisti. Non possiamo tagliare le nostre radici, mentre progettiamo il nostro futuro.

Partiamo da qui ed ora: la democrazia, da quella classica a quella più avanzata, è minacciata dall’alto dal capitalismo finanziario e delle multinazionali, che non vogliono limiti alle loro decisioni, e dal basso dalle forme bestiali di sfruttamento e del lavoro semischiavistico ancora diffuso in troppe parti del mondo e dai movimenti nazionalisti, razzisti e populisti di destra, che fanno presa anche su strati popolari. Come si organizza una resistenza politica e sociale di massa? Cercando di superare le divisioni a sinistra o affermando la propria egemonia nella sinistra? Pur con tutte le difficoltà dobbiamo credere che la prima risposta è più sensata.

A sinistra comincia una riflessione.

Noi partiamo da quella di Luciana Castellina ne (il manifesto del 17 Febbraio e da quella di Rossana Rossanda nella lettera al Congresso di Sinistra Italiana e nell’intervista (il manifesto, 16 febbraio).

Una riflessione profonda che ha generato addirittura il provocatorio titolo «Quasi preferirei Merkel» con Merkel in caratteri rossi. Si sentono critiche giuste, basta leggere Social Europe per rendersene conto, sulla subordinazione del Pse al neoliberismo, ma individuare nella socialdemocrazia in un certo senso il nemico principale è – a nostro avviso – un errore. Ideologico e tattico. Ricorda la sotto valutazione del pericolo fascista rispetto alla conquista dell’egemonia a sinistra sconfiggendo la socialdemocrazia tra le masse popolari.

Se formazioni a sinistra del partito socialista si rafforzano soltanto a spese dei suoi elettori la somma totale non aumenta. In Germania soltanto un terzo dei voti persi dalla Spd si è diviso tra Linke e Verdi, mentre 2/3 sono finiti nell’astensione. Lo stesso è avvenuto in Italia: dove sono finiti i 16.265.985 voti dell’Ulivo su 37.295.109 voti validi?

17 anni dopo Italia Bene Comune ha avuto 10.353.275 voti su 34.0045.755 voti validi senza considerare gli elettori (aumentati) e i votanti (diminuiti in percentuale).

Queste aride cifre dicono molto di più di tante analisi.

La situazione appare disperata se ci si aggrappa a qualsiasi segnale che venga da fuori. Da Syriza in Grecia alla Linke tedesca o a Melenchon in Francia, ma ora soprattutto a Podemos in Spagna, cui si fa un’apertura di credito senza riserve. Eppure non hanno abbandonato la definizione che non sono né di destra né di sinistra e che la vera divisione è tra alto e basso.

Nelle nostre assemblee hanno spesso successo le invettive anti- euro e anti-europee dei sovranisti, altro movimento che respinge la divisione tra destra e sinistra. Tuttavia questa ambiguità non si perdona al M5S. In compenso ci si entusiasma per Corbyn, che conquista il Labour o per Bernie Sanders, che negli stati decisivi, avrebbe potuto battere Trump.

In Portogallo con i suoi 10.341.330 di abitanti c’è l’unico governo diretto da un socialista Antonio Costa e sostenuto da tutta la sinistra. Ma non è trendy, come lo è stato a suo tempo Alexis Tsipras e la sua Grecia: e non sembra che la ragione stia nella dimensione della popolazione di 10.858.018 abitanti, cioè di mezzo milione in più.

Per i rapporti destra-sinistra in Europa le elezioni francesi e tedesche saranno decisive. In Germania il recupero della Spd, grazie a Martin Schulz, nel bacino dell’astensione e quindi non a spese della Linke e dei Verdi potrebbe creare una nuova maggioranza. In Francia, però, se non si trova un candidato unitario, la sinistra, sarà esclusa dal ballottaggio.

Ci serve una politica che da una parte restituisca i diritti al mondo del lavoro, e dall’altra faccia una lotta seria all’evasione fiscale che potrebbe – come è stato detto – realisticamente costituire il patrimonio di credibilità e di risorse da impiegare nella scuola, nella sanità, nella difesa del territorio, nella istruzione in formazione e ricerca, nella giustizia cioè sui fattori che possono attrarre investimenti ed indurre le imprese ad assumere.

E così costituire una base politica ed anche finanziaria da cui partire per riformare le politiche sociali ad iniziare da un reddito di inclusione e da una normativa sull’accoglienza non razzista e piena di paura.

FELICE BESOSTRI
ENZO PAOLINI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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