“Jobs act, la Consulta boccia il referendum sull’articolo 18; sì a quelli su voucher e appalti. La sentenza sull’ammissibilità dei quesiti proposti dalla Cgil è arrivata al termine dell’udienza a porte chiuse e di due ore di camera di consiglio. Il sindacato aveva raccolto 3,3 milioni di firme soprattutto per ripristinare le tutele previste dallo Statuto dei lavoratori cancellate con la riforma del lavoro varata dal governo Renzi.
Rimangono in campo il referendum riguardante i subappalti e quello sui voucher.”.
Per esprimere appieno una valutazione sarà necessario leggere il dispositivo della sentenza che del resto era annunciata in questi termini e conoscere anche l’esito dell’espressione di voto da parte dei giudici. Una espressione di voto che era annunciata di stretta misura nel prevalere di un’opinione davanti all’altra.
In prima istanza si può però affermare che risulterebbe quanto mai capzioso il consenso sull’ipotesi avanzata, in questa occasione, da Giuliano Amato sulla “propositività del quesito”, considerato che in passato su analoga domanda la questione non era stata sollevata e un referendum sull’articolo 18 si era già svolto senza poi, al momento del voto, raggiungere il 50% dei votanti.
I tempi però sono cambiati prima di tutto nell’opinione pubblica, laddove l’esito del referendum costituzionale del 4 Dicembre aveva già mostrato ampiamente un orientamento preciso: un’opinione pubblica da temere quindi e un referendum da evitare (come sfuggì anche dalle labbra dell’incauto ministro Poletti).
L’insieme del quadro politico in questo momento ha solenne terrore di un voto di merito : mentre il PD pensa alle elezioni anticipate per sottrarsi all’esito vero della tornata referendaria del 4 Dicembre che ha contemplato anche (ma non soltanto) un grande voto di sfiducia.
Soprattutto però si è affermato pesantemente un modello di relazioni sindacali orientato esaustivamente dal punto di vista della centralità e della libertà di movimento dell’impresa: il cosiddetto “modello Marchionne” entusiasticamente sposato dal Governo Renzi, quale esempio di modernità e flessibilità nei rapporti di lavoro: nel concreto mano libera ai padroni.
In questo modo, evitando il referendum sull’articolo 18, si evita il vero confronto politico su di una visione alternativa a quella padronale del “cuore” delle relazioni sindacali.
Uno “scansarsi” dell’establishment che la dice lunga delle condizioni materiali in cui si trova il confronto sociale.
La libertà di licenziamento corrisponde alla libertà di sfruttamento, all’imposizione del precariato, all’allontanamento ulteriori da tutele e diritti.
Un brutto passo indietro che contraddice anche il senso complessivo dell’esito referendario del 4 Dicembre proprio in materia costituzionale: infatti la Corte non ha tenuto conto di un dato fondamentale espresso da quel voto, in materia di affermazione del dettato costituzionale.
In gioco, infatti, in quest’occasione della richiesta di referendum sulla cancellazione dell’articolo 18 c’era anche e soprattutto la piena affermazione dell’articolo 1 della Suprema Carta: se non c’è dignità del lavoro (come si è inteso abolire cancellando l’articolo 18) non ci può essere “Repubblica fondata sul Lavoro”.
Il voto della maggioranza della Corte Costituzionale permette al Governo di evitare lo scontro su questa tema delicato.
Sarà necessario, oltre che a fare in modo che per gli altri due quesiti prevalga il SI’ ( si tratterebbe comunque di un evidente voto di sfiducia verso il famigerato Job Act), mobilitare subito adeguate forme di lotta per fare in modo che proprio il tema della dignità del lavoro torni al centro del confronto sociale e politico.
Una sentenza chiaramente strumentale da smentire subito con la lotta, in una situazione di grande difficoltà economica, di allargamento delle disuguaglianze, di crescita della disoccupazione: non si può indugiare, non c’è tempo da perdere.
FRANCO ASTENGO
redazionale
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