Alla reggia di Caserta ci sono stato oramai tanti anni fa: era il penultimo anno di liceo e andammo in gita scolastica a Napoli e dintorni. Dopo aver visto i Faraglioni, la bella Capri e un cenno delle rovine della villa di Tiberio, passammo ovviamente a Pompei: fu un tuffo nel passato remoto e in quello più prossimo. Dall’avanti Cristo al ben dopo Cristo della reggia dei Borbone. Un incanto: il trionfo dei marmi degli scaloni interni, il grande gioco delle acque di Vanvitelli e una piccola disavventura dovuta all’essersi lasciati prendere dalla maestosità del luogo e dalla voglia di andare fino alla fontana di Diana e Aettone e riposare lì le stanche membra.
Ci costò l’essere dimenticati dalla comitiva studendesca e abbandonati lì, a 800 chilometri da casa, allora senza alcun modo per poter comunicare con chi stava sul pullman che stava rientrando a Napoli. Ci ripescarono dal rovente marciapiede assolato, mentre ci cibavamo con due frugalissimi panini acquistati da un chiosco nemmeno troppo autorizzato alla vendita.
Mentre si era lì, passarono più volte alcune botticelle trainate dai cavalli come Nestore, il cavallo dell’ultima corsa cinematografica di Alberto Sordi. Allora non riflettevo sul fatto che magari all’animale non andasse proprio di dover trainare mattina e pomeriggio una carrozzella d’altri tempi con sopra beati turisti, ammirati dalle bellezze del luogo. Era normale che ciò avvenisse: da quanti millenni gli uomini usano cavalli, buoi, asini per evitare la fatica di trasportare qualunque tipo di materiale? Praticamente dall’invenzione della ruota, per i poveri animali da traino e da soma è sempre stato così.
Come gli schiavi nell’antico Egitto e in Mesopotamia, i cavalli erano tolti dal loro stato di libertà, dall’essere bradi (notare che il termine pare etimologicamente derivare da “barbarus“, quindi incivile, ribelle, per l’appunto libero) e venivano così utilizzati per l’aratura dei campi, per tirare le bighe e la quadrighe nei giochi circensi.
Nel Medioevo al cavallo tocca in sorte di dover essere montato pure da cavalieri bardati con armature pesanti come macigni che, più o meno fantozzianamente, andavano avanti e indietro nelle giostre di quintana e spesso, quando la zampa che aveva accumulato tanto stress si spezzava o subiva un trauma irreversibile, incurabile, i poveri animali venivano subito finiti. Per non farli soffrire… Una sorta di eutanasia equina praticata ancora oggi: così accadde nel 2018 al Palio di Siena al cavallo Raol.
Fatica e divertimento degli umani: a questo servono i cavalli se non riescono a vivere lontano dalla “civiltà“. Chi tenta una difesa dei diritti degli animali viene tacciato di una sorta di “esagerazionismo”: del resto, siccome il mondo gira così, siccome siamo esseri abitudinari e siccome da sempre vediamo i cavalli presi al lazzo, domati, cavalcati, usati in pace e in guerra praticamente dalla notte dei tempi, si presuppone che così debba sempre essere e che mai si potrà giungere ad una società che smetta di sfruttare tanto gli esseri umani quanto gli altri esseri viventi per fare profitti e per divertirsi o per soddisfare il palato.
Metto fiducia nel fatto che parliamo di “soli” 200.000 anni di presunta evoluzione umana e che, se la nostra specie sopravviverà alla distruzione del Pianeta che sta mettendo in essere perpetuando il sistema capitalistico di sfruttamento intensivo di ogni risorsa vegetale e animale presente sulla terra, nei mari e nei cieli, la aspettano ancora miliardi di anni da affrontare…
A Caserta, quasi trent’anni fa, vidi dunque le botticelle trainate dai cavalli. Uguali, precise a quella cui era attaccato il cavallo che ieri, 12 agosto, è stramazzato al suolo sfinito dalla fatica aggravata dal caldo insopportabile. Probabilmente i turisti che siedono comodamente dietro non riflettono sul fatto che mentre se la godono, magari sorseggiando una granita, guardando la Reggia dei Re di Napoli e Sicilia, i bei giardini e le fini architetture barocche, il cavallo non si diverte affatto.
Può essere trattato, curato e accudito nel migliore dei modi, ma resta il fatto che il prezzo dello scarrozzamento non è soltanto quello pagato al conduttore ma soprattutto quello pagato dal cavallo.
Dobbiamo iniziare a considerare un diverso modo di convivere con il resto delle specie presenti su questo globo; porci domande, alimentare dubbi per aprire le porte ad un’etica differente. Una “controetica” rispetto a quella fino ad ora esistita e tutt’ora “dominante“, poiché rispecchi perfettamente le esigenze di un sistema economico che tutto riduce a merce: natura, animali, esseri umani.
Il capitalismo sfrutta fino all’osso ogni cosa, animata o inanimata, traendo dai più deboli la maggiore fonte per garantire a pochi grandi uomini di affari ingenti profitti e a tutti gli altri miliardi di esseri viventi (decine di milardi se si comincia a pensare alla somma di tutte le specie) una vita fatta di fatiche materiali, di esaurimenti morali: una sopravvivenza che fa venire in mente le parole dello Spartacus di Kubrick: “L’uomo libero perde la gioia del vivere, lo schiavo ne perde la pena“.
Se a stramazzare al suolo, sotto il sole d’agosto, fosse stato un conducente di risciò, ci saremmo indignati tutti: sarebbe una morte sul lavoro. Al cavallo nemmeno questo riconoscimento è dovuto. Le botticelle andrebbero accantonate, lasciate al ricordo del passato e sognate guardando qualche film che narra di lussuosi intrighi di corte dove anche nelle carrozze si consumavano drammi amorosi che finivano sempre male.
Se vogliamo fare un giro nei dintorni di qualche bel monumento della nostra Italia e del mondo in generale, possiamo affittare un bici-risciò a quattro ruote e quattro posti, pedalando anche duramente, sudandoci il nostro tour.
Mettere in dubbio la liceità di tanti stili di vita che abbiamo acquisito nel passato non significa oggi dover attribuirsi lavori così pesanti da costringere gli esseri umani a rallentare il proprio sviluppo singolare e sociale: tutto il contrario. Oggi siamo in grado di far svolgere a macchine terrestri e volanti ogni tipo di fatica che prima chiedevamo alle altre specie venti. E possiamo farlo utilizzando anche una tecnologia che sia compatibile con il rispetto più generale dell’ambiente: sfruttando meno idrocarburi e di più l’energia solare, quella eolica, quella delle acque.
A questo possiamo aggiungere la modificazione dei nostri stili alimentari, visto che se vogliamo davvero provare a convivere con tutti gli altri esseri animali, è necessario partire da questo grande assunto: noi non abbiamo nessun diritto su loro.
Per raggiungere uno stile di vita vegetariano occorre prendere consapevolezza di questo: che, onnivori o meno che si sia, si può fare la scelta; si può decidere di decretare personalmente sacre tutte le specie, partendo dal presupposto che noi non abbiamo il diritto di utilizzarle e di mangiarle soltanto perché siamo più intelligenti o perché ci piace il sapore di quelle carni.
Siamo onnivori per tradizione millenaria, eppure già nell’antica Grecia e nella Roma repubblicana, così come nell’Egitto dei faraoni o nella Persia di Ciro e Dario si sviluppavano dibattiti sull’opportunità o meno di macellare gli animali, di pescarli, di “dominare” la natura in tutte le sue forme.
La religione egiziana, dai tratti metempsicotici, vietava di cibarsi di animali e di utilizzarne le pelli. E mentre Aristotele riteneva gli animali al servizio della specie umana, Pitagora avversava qualunque tipo di sottomissione dei medesimi ai nostri bisogni (più o meno concepiti o resi tali). In Oriente, Confucio è il vegetariano più facile da citare.
Mentre il Buddhismo è l’unica religione al mondo, oltre alla Teosofia, a rispettare egualmente tutte le forme viventi, a differenza di Ebraismo, Cristianesimo e Islam che sono antropocentrici.
Altri famosi vegetariani del passato sono: filosofi come Eraclito, scrittori come Plutarco, pensatori come Plotino, Epicuro “…e tutti i suoi seguaci“, precettori imperiali come Seneca, Leonardo Da Vinci, il naturalista Linneo, la mazziniana americana Margaret Fuller, Richard Wagner, Lev Tolstoj, Ghandi, Bernard Shaw e per venire ai giorni nostri l’astrofisica Margherita Hack. Ma l’elenco sarebbe molto lungo…
Intorno alla scelta vegetariana si sviluppano spesso dibattiti fuorvianti, causati da provocatori che intendono cercare delle contraddizioni per dimostrare la “normalità” di un comportamento universale che parrebbe essere imperituro, eterno. Ma nessuna condizione sociale, civile e morale può accampare alcuna pretesa di eternità. Esistono posizioni dialoganti e altre intransigenti. Da entrambe le parti: sostenitori dell’onnivorismo e vegetariani.
Non credo che le posizioni intransigenti giovino alla causa antispecista e animalista. Per questo, ritengo che ragionarne insieme, sempre, sia il modo migliore per evolvere e chiedere così scusa, un po’ alla volta, agli animali nei confronti dei quali da migliaia e migliaia di anni si perpetra un vero e proprio olocasto mai finito.
Il cambiamento sociale deve portare con sé una rivoluzione di liberazione duplice: umana e animale. Una “rivoluzione naturale“, nessuno escluso, dove il rispetto – ad esempio – per le mucche non sia soltanto frutto di una dettame religioso, bensì una precisa, consapevole parte della nostra nuova etica universale.
Ci vorrà molto tempo. Forse ce ne vorrà meno, se in molte e in molti attueremo in noi – come sosteneva Ghandi – quel cambiamento che vogliamo vedere realizzato nel mondo. Finché il mondo siamo anche noi, quel cambiamento inizia a vivere e si diffonde.
MARCO SFERINI
13 agosto 2020
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