Ficht o non Ficht (l’agenzia di rating), una cosa è certa: l’1% previsto dal governo quale soglia di crescita del prodotto lordo nel 2019 rimarrà tale soltanto nei documenti ufficiali del governo stesso. Nella migliore delle ipotesi, infatti, il tasso di crescita della nostra economia quest’anno non andrà oltre lo zero e qualche decimale.
Ne conseguirà che anche il deficit stimato nella manovra non corrisponderà a quello reale. Dal creativo 2,04% si passerà, verosimilmente, ad un livello compreso tra il 3 e il 4% del Pil.
A meno di non voler sfidare in campo aperto i mercati obbligazionari e, sul piano politico, le istituzioni europee, questo scenario non potrà che condurre, direttamente, alla «manovra correttiva». Un «aggiustamento» dei conti pubblici che, per 2 miliardi, si realizzerebbe automaticamente, per via della relativa clausola di garanzia inserita nella legge di bilancio (tagli lineari ai ministeri), mentre il resto arriverebbe, per l’appunto, da una «manovrina» di iniziativa del governo (valore stimato tra i 6 ed i 9 miliardi di euro).
Potrebbe bastare, ma le incombenze, purtroppo, non si fermano qui. Perché aggiustati i conti per l’anno in corso, ecco materializzarsi un altro spettro: l’aumento automatico dell’Iva per un valore di 23 miliardi di euro nel 2020. È l’ipoteca che il governo ha iscritto sui portafogli dei cittadini e delle imprese per garantirsi uno spazio fiscale più largo nell’anno in corso.
Dilemma: far aumentare l’Iva o sottrarre risorse al bilancio dello Stato? Niente a che vedere col più noto dei dilemmi, quello shakespeariano. La scelta, qui, sarà tra il morire di Iva o morire di altri tagli alla spesa pubblica, assecondando in entrambi i casi il ciclo negativo dell’economia.
Frattanto, nel dibattito politico ha fatto capolino in questi giorni una parolina magica: patrimoniale. E, come c’era da aspettarsi, dalle parti del governo hanno subito inscenato la gara a dichiararne l’impraticabilità. Conte, Salvini, Di Maio, Tria: «La patrimoniale è assolutamente esclusa». Assolutamente, come si trattasse del demonio, del peggiore dei provvedimenti che un governo potesse adottare in un momento di emergenza, quando il rischio di una debacle finanziaria potrebbe mandare a carte quarantotto l’intera economia.
In realtà, non solo non è esclusa la possibilità che il governo, costretto dal precipitare degli eventi, decida per l’applicazione di una tassa aggiuntiva sui patrimoni degli italiani, ma sarebbe il caso di dire che una tale misura andava addirittura prevista prima, in sede di definizione delle linee generali per la formazione della legge di bilancio, senza enfatizzare da un lato e drammatizzare dall’altro la partita dello «sforamento» del tetto del disavanzo pubblico.
Una misura «redistributiva» per finanziare almeno una parte della spesa sociale, tra le cui voci rientra lo stesso «reddito di cittadinanza». In un Paese dove ormai il 5% della popolazione detiene il 43% di tutta la ricchezza disponibile e cinque milioni di persone (l’8,4% della popolazione) versano in condizione di povertà assoluta, l’introduzione di una «patrimoniale sui ricchi» sarebbe la cosa più ovvia, più normale da fare. Lo riconoscono ormai perfino organismi ed istituzioni internazionali non certo sospettabili di idee sovversive e nemmeno timidamente «di sinistra», a cominciare dall’Ocse.
Si tratterebbe di un rovesciamento di paradigma, valido anche per gli anni a venire. Non un prelievo forzoso ed indiscriminato, estemporaneo, provvisorio, come altri ce ne sono stati nel passato, ma una misura strutturale, in linea con due principi fondamentali della Costituzione: la progressività fiscale e l’uguaglianza «sostanziale» dei cittadini. È stato stimato che un’imposta media dell’1% a carico dei nuclei familiari con una ricchezza complessiva intorno al milione di euro genererebbe un gettito aggiuntivo per l’erario di circa 20 miliardi di euro l’anno. Balsamo per la nostra economia stagnante, una spinta fortissima per la nostra domanda interna.
La lotta alla disuguaglianza ed alla povertà, insomma, come misura di stimolo all’economia reale e anche di stabilizzazione dei conti pubblici. Esattamente una rivoluzione, un «cambiamento» vero, rispetto alle politiche di questi ultimi anni e di quelle che fa, o prova a fare, attualmente il governo in carica, un mix di reaganismo (flat tax) e di workfare per il disciplinamento della povertà (reddito di cittadinanza).
Intanto, incalzato in una intervista concessa al Sole 24 Ore sui rischi che corrono le finanze del Paese, il premier Conte ha glissato affermando che tutt’al più si andrà verso una revisione delle attuali agevolazioni fiscali (le cosiddette tax expenditures). I ricchi non si toccano.
LUIGI PANDOLFI
foto tratta da Pixabay