Una nuova guerra per una nuova stagione imperialista

Nessuno è fuori dal mirino. Nessuno è al sicuro. Nessuno può dirsi estraneo a quanto sta accadendo in Ucraina e, diciamolo pure, in Europa. Perché la Russia, almeno fino...

Nessuno è fuori dal mirino. Nessuno è al sicuro. Nessuno può dirsi estraneo a quanto sta accadendo in Ucraina e, diciamolo pure, in Europa. Perché la Russia, almeno fino agli Urali, è Europa e perché la responsabilità di quella che Mosca chiama “una operazione speciale militare“, mentre noi la scambiamo maliziosamente per quello che ci appare veramente essere, una guerra, sta tanto ad oriente quanto ad occidente.

Nessuno può etichettarsi come “buono” contro il cattivo, perché di bontà e di onestà intellettuale, morale, civile, politica ed economica non c’è praticamente traccia in una serie di rapporti internazionali che hanno contribuito a far sì, dopo otto anni di combattimenti nella regione del Donbass, che l’alzata del mirino fosse determinata da reciproche (s)ragioni espansionistiche su un piano che, rinverdendo vecchie terminologie che tornano purtroppo sempre attuali, non è improprio appellare come “imperialistico”.

La fine della Guerra fredda in Europa e nel mondo aveva lasciato presagire che si sarebbe ridisegnata una mappa della geopolitica a livello globale e che le potenze che fino ad allora si erano fronteggiate avrebbero dovuto lasciare spazio a nuove emergenti nazioni, a nuovi poli di concorrenza sul terreno della modernità liberista: l’Unione europea, da un lato e i cosiddetti “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) dall’altro contendevano la bipolarità di un mondo lacerato da oltre cinquant’anni di conflitti giocati sulla pelle dei popoli per determinare le sfere di influenza sul globo.

Il ruolo dell’ONU è divenuto una appendice del vero regolatore delle ragioni del contendere: l’economia capitalistica, l’accumulazione di sempre maggiori risorse, il sostegno decisamente autarchico di certe ricchezze nazionali e continentali, con la conseguente formazione di uno sviluppo di agglomerati di potere che sono diventate vere e proprie modernissime plutocrazie.

Per questo desta un malcelabile sorriso tratteggiato dall’ironia il sentire parlare oggi, poche ore dopo l’attacco di Putin all’Ucraina, di ragioni economiche occidentali da difendere dagli oligarchi russi. La disinvoltura con cui i commentatori nelle nostre televisioni sottolineano la legittimità delle grandi speculazioni affaristiche, finanziarie e borsistiche americane ed europee è sorprendente: la colpa è tutta, soltanto da una parte. Quella della Russia, quella della Cina, quella di chi non aderisce al blocco (nemmeno troppo omogeneo…) del cosiddetto “Occidente democratico”.

La democrazia americana non è meno plutocratica dell’oligarchismo russo; e quest’ultimo non ha meno spinta al rafforzamento delle proprie posizioni di potere, per continuare ad essere sostenuto dai magnati che lo foraggiano, rispetto ad una Casa Bianca che doveva cambiare nettamente rotta in politica estera e che invece ha confermato, per filo e per segno, il disegno ricalcato e ben visibile di una Repubblica stellata gendarme del mondo, al servizio delle grandi organizzazioni del capitale (FMI, Banca Mondiale, OCSE…) e davvero molto poco differente in tutto ciò dalle smargiassate grossolane di Donald Trump.

Alle 6.00 di questa mattina, ora italiana, dunque i russi hanno bombardato i campi dell’aviazione militare ucraina, come primo atto per spianare la strada ad una invasione di terra che, nelle intenzioni putiniane, deve mettere fine alla minaccia dell’espansione della NATO ad est. Già, la NATO. Questo carrozzone bellicista, questo residuato militare del dopoguerra mondiale, questo arsenale di basi, di armi, aerei, navi e campi di addestramento sparsi per tutta l’Europa e, ad est, dai Paesi baltici alla Turchia.

Un mirino puntato contro la Russia. Un mirino che si è andato sempre più alzando ad altezza di tiro con l’allargamento progressivo dai tempi di Bill Clinton passando per i Bush, arrivando ai giorni nostri a lambire proprio i confini dell’ex impero degli zar, incuneandosi quasi fino a quel Caucaso che rimane una polveriera, esplosa più volta, di nazionalismi ed etnicità rivendicate al di qua e al di là dei confini di piccole repubbliche, alcune autoproclamate, altri riconosciute dagli Stati limitrofe, altre ridotte al silenzio da stermini di massa di cui si è sentito solo parlare qui, nel nostro “occidente democratico“.

Ma la “buona fede” degli Stati Uniti non può essere messa in discussione, perché il fregio di cui si vantano è di rappresentare quella democrazia che altri non hanno.

Sul relativismo dei concetti storico-politico-statali si potrebbe discutere per giorni e giorni e non se ne verrebbe veramente a capo, perché ciò che per Putin è democratico, per Biden è autoritario e ciò che per noi è imperialista, per entrambi è semplicemente il giusto spazio che entrambi devono conquistarsi per avere il loro posto nell’economia mondiale, per la sopravvivenza dei propri popoli, delle proprie reti industriali a scapito – si intende – di chi si deve stringere davanti all’allargamento dell’altro.

Non c’è, dunque, nessuna parte giusta da cui stare, se non quella della pace, dell’antimperialismo, dell’alterità a questo capitalismo liberista che, in tutta la sua naturalezza, sviluppa conflitti atti alla riorganizzazione delle sfere di influenza delle singole potenze emerse o emergenti nel corso di questi ultimi decenni.

La durezza del discorso di Putin può sembrare tale solo se non si prendono in considerazione i toni della NATO dei giorni scorsi, nonché quelle di Zelensky o di altri leader europei. Tutto questo aggrava ancora di più il dramma della guerra che, nonostante si possa fare anche sul web, con i cyberattacchi, o con armi di estrema chirurgica precisione, fa e farà le sue tante vittime civili. Perché un missile, una bomba, un fucile, per quanto millimetricamente precisi possano essere, comunque puntano ad annientare: qualcosa o qualcuno è indifferente.

Il cinismo è figlio naturale della bellicosità necessaria alle mire espansionistiche di chiunque voglia imporre al mondo il suo dominio imperiale e, magari, pure la sua visione in merito alla “democrazia“, esportabile, vendibile e gestibile per conto terzi. Un conto salato, che lascia sempre tante macerie tutte intorno alle vite diventate sopravvivenze estreme. L’Afghanistan, la Siria, l’Iraq, la Somalia, la Libia e tanti altri campi di battaglia quasi permanenti, sono lì a ricordarcelo: troppo attuali per entrare nei libri di storia, troppo giovani per rimanere nella memoria di chi li ha vissuti e ne porta tutte le cicatrici addosso, sulle carni vive…

Non è possibile schierarsi. Non è possibile sfuggire al mirino delle responsabilità. Non è possibile sentirsi migliori di altri, perché non lo siamo, perché, nonostante sia sufficientemente lontana da non farci temere ritorsioni nel nostro Paese, la guerra che è cominciata oggi è causata da uno scontro di interessi e di valori la cui inconciliabilità è determinata dalla tolleranza che per troppo tempo abbiamo avuto nei confronti del nostro modello di vita.

Ci siamo detti, sul finire degli anni ’90, che quella balcanica era una guerra eccezionale, che se la Jugoslavia non fosse implosa, non sarebbe accaduto niente e che, pur a due passi da noi, noi eravamo protetti e al sicuro grazie alla NATO e all’Europa.

A dover guardarsi dalle potenti democrazie occidentali dovevano essere i serbi, proprio mente venivano bombardati e mentre a Sarajevo, e tutto intorno, prendeva fuoco una interetnicità ricca di rancori, di odio e di voglia di suprematismo nazionale. Tutti accompagnatori spietati di conflitti che hanno bisogno di sempre maggiori ragioni per reggere alla prova sul campo, per giustificarsi nell’immediato e alla prova della verifica storica.

La sceneggiatura mortifera si ripete oggi in Donbass, in Ucraina, in Crimea: i toni muscolari di Putin sostengono una retorica patriottarda che poggia su una descrizione dei passati rapporti tra Mosca e Kiev, a partire dall’epoca dei Principati russi per arrivare fino alla Rivoluzione d’Ottobre, per legittimare prima il sostegno a Donetsk e Lugansk e da stamane l’attacco più generalizzato contro uno Stato considerato nell’orbita quindi non soltanto politica ma anche socio-culturale della Russia.

L’accelerazione attribuita in queste settimane e oggi ad una crisi internazionale che coinvolge veramente tutta l’Europa (e il pianeta), ci porterà ad una riconsiderazione della stabilità continentale, del ruolo della UE e della NATO. L’amorfismo politico di una Unione fondata esclusivamente sui capitali e le banche non bilancia il revanchismo dell’Alleanza atlantica che interpreta alla perfezione i voleri della Casa Bianca e del grande impero americano.

Se l’Europa darà una risposta militare a questa crisi, allora si dimostrerà ancora più dipendente dal gigante a stelle e strisce d’oltreoceano. Se invece darà una risposta in termini di maggioranze delle sanzioni contro la Russia, sarà comunque sempre troppo sproporzionata al ribasso come reazione all’attacco di oggi e ai giorni di guerra che è probabile attendano le vere vittime di questo risiko: il popolo ucraino, quello del Donbass e la povertà di milioni e milioni di persone alla mercé, come sempre, di interessi molto più grandi dell’umanità e, per questo, amorali e privi di qualunque scrupolo.

MARCO SFERINI

24 febbraio 2022

foto: screenshot

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