Roosevelt, nel momento più difficile della crisi americana del 1929, pronunciò una frase divenuta famosissima: «L’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa». La paura della paura, insomma. Quella che non è strettamente legata a qualcosa di reale, ad una minaccia imminente, ma il timore che si possano verificare le condizioni perché si concretizzi il peggio e non si sia in grado di fronteggiare il tutto.
Un timore molto pragmatico quello richiamato da Roosevelt: non farsi prendere dal panico ma affrontare la realtà per quel che è, passo dopo passo, senza preconizzare nulla, senza presumere, senza lasciarsi andare alla sempliciotteria dello spavento tout court. Siamo animali umani, quindi siamo avvezzi anche al timore, all’ansia. Quest’ultima è l’esponenzializzazione della paura. Ne è la deformazione.
Alla paura di non poter sopravvivere abbiamo, nel corso dei millenni, sempre più lontani dal nostro primitivismo, prima affiancato e poi sostituito la paura di dover vivere, di dover affrontare giorno dopo giorno l’esistenza, coscienti che il prossimo futuro, per così dire l’immediatezza attimo dopo attimo, ci avrebbe riservato non delle certezze su cui fare affidamento, ma delle incognite sempre più grandi.
Paura, timore, ansia, panico e terrore sono così divenuti quasi sinonimi, benché essi rappresentino stati emozionali profondamente differenti l’uno dall’altro per derivazione, per concretizzazione psicosomatica in ognuno di noi e, quindi, per sperimentazione empirica che si fonda sul confronto tra individuo e realtà, tra introspezione ed estrospezione.
La paura che aveva il cacciatore dell’età della pietra era, fondamentalmente, quella di riuscire a difendersi da un mondo quasi completamente ostile: per il clima, per la presenza di animali ferocemente carnivori.
Il timore di essere sopraffatti da queste avversità a volte eteree, impalpabili e visibili negli effetti atmosferici, altre volte più concretamente visibili davanti a sé, nel confronto con fiere capaci di sbranarti a morsi, ha indotto i sapiens a sviluppare tecniche di difesa che andavano dalle costruzioni di armi sempre più sofisticate a quelle di rifugi e abitazioni inaccessibili alle belve.
La paura, dunque, è stata uno dei motori della conoscenza indotta dalle circostanze. Non sviluppatasi, quindi, direttamente, ma spinta comunque a divenire tale dal bisogno, dalla necessità, dall’istinto di autoconservazione.
Nell’era del primitivismo il timore è chiaramente finalizzato a questi scopi e non ha una funzione diversa da quella dello stimolo a trovare ogni soluzione concretamente realizzabile e ripetibile per permettere a sé stessi e alla propria comunità di rimanere viva, di acquisire quindi sempre maggiori conoscenze per migliorare la condizione esistenziale.
Thomas Hobbes l’avrebbe definita la “paura primaria“, quella della morte. Anzi, quella di una morte non naturale, ma violenta, dovuta a fattori che si scatenano contro l’essere umano e che ne determinano inevitabilmente la fine, quindi prescindendo dalla sua volontà.
L’incapacità dell’essere umano di poter spiegare questa fine entro i limiti di una razionalità che, proprio perché tale, cerca di dare ad ogni evento naturale la sua giusta collocazione logica nell’esperienza che ci riguarda giorno per giorno, ha permesso ai culti religiosi di prodursi e riprodursi.
Possiamo, quindi, affermare che l’assunto marxiano sulla fede in creature o poteri ultraterreni, trascendenti il fisico e l’organico, come qualcosa strettamente connesso al desiderio (inconscio) di lenire le proprie sofferenze per l’incomprensione dell’esistenza e dell’inesistenza conseguente e inevitabile, sia sostanzialmente ineccepibile se lo si comprende entro i termini dello sviluppo di una paura che ha bisogno di essere in qualche maniera contenuta, tamponata, resa innocua.
La paura di morire è il limite estremo di un pensiero che rivolgiamo all’ignoto, all’inconoscibile; ma consapevoli del fatto che, appunto, un giorno finiremo di esistere mentre tutto quello che ci circonda continuerà ad essere qui, a trasformarsi, dimensionandosi diversamente, cambiando anche radicalmente, ma ci sarà. L’Universo è in espansione, la vita umana è dentro questo grande mistero che ha tempi dilatatori molto più grandi della nostra impercettibile vita.
Tutta l’ontologica finitudine del nostro essere (visto che ci siamo, l'”esserci“) giunge alle soglie dell’imponderabile proprio nell’attimo in cui prendiamo coscienza del fatto che siamo determinati entro un certo tempo, entro certi confini corporali, entro, soprattutto, certi perimetri razionali.
Potenzialmente infiniti, ma nella pratica ridotti ad una conoscenza limitata rispetto alla vastità non solo fisica dell’universalità delle cose, della materia visibile ed oscura.
La paura, questa grande leva di autoconsapevolezza e di continua spinta propulsiva verso l’evitamento di qualunque situazione che ci possa portare alla sofferenza psichica, al dolore fisico, alla compenetrazione di entrambi questi aspetti e al deperimento delle nostre forze tanto mentali quanto corporali, è dunque qualcosa che dobbiamo classificare nel segno della positività o, solo per il fatto di essere aprioristicamente spiacevole, in quello della negatività?
La domanda è lecita, doverosa e per certi versi anche necessaria; non fosse altro perché ci obbliga a prendere in considerazione gli aspetti anche utili che, per l’appunto, possono venire da sentimenti che saremmo istintivamente portati ad evitare, a non incontrare mai, preservandoci dall’incertezza sulle scelte, spesso dolorose, e quindi dai tanti bivi e trivi che si possono incontrare nel corso della vita.
Hobbes, tra i tanti ragionamenti sulla paura che mette nero su bianco e che ci ha lasciato, contribuendo all’iniziazione di una sorta di euristica della paura stessa, vede in queste emozioni non piacevoli delle reazioni più che altro fisiche, corporali (chiamate letteralmente “passions“) che fuggono dalla concezione razionale del proprio stato psicofisico, dell’essere in quanto persona e cittadino nella comunità.
La paura è una emozione che avvolge la ragione, la imprigiona e la condiziona: a volte utilmente, altre volte molto meno. Per questo noi cerchiamo di “evitare la morte“, perché razionalmente vogliamo vivere anche se sappiamo che la nostra esistenza è determinata temporalmente e, comunque sia, alla morte non possiamo sfuggire sempre e comunque.
L’eternissima lotta tra sentimento e ragione, tra desiderio e realtà, è una violenza che ci procuriamo ancestralmente. Ci dibattiamo in questa antitesi che riguarda l’esserci e il non esserci, allontanando da noi il momento in cui la vita ci abbandonerà e di noi rimarrà quello che, influenzati dalla distorsione cristiana del concetto greco di anima (psiche, soffio…), saremmo tentati di chiamare le “spoglie mortali“.
Contrapponendo in questo modo alla mortalità del corpo una immortalità del soffio che ci lascia e che si disperde chissà dove e chissà mai perché. La paura del non esserci più, mai più, non è mitigata dal pensarci esattamente come eravamo prima della nascita, quindi incoscienti e inconsapevoli di essere e (tanto più) di poter essere, quindi privi di un ricordo di un qualunque dolore associabile a quello stato di prenatalità.
No, la nostra paura è diversa perché è frutto dell’esperienza. Prima di nascere non c’era nessuna possibilità di avere coscienza del non esistere. Il fatto di esistere, di iniziare a vivere e, quindi, di sapere attraverso i racconti prima e poi direttamente mediante il confronto con la realtà, quindi con la scomparsa delle persone che ci stanno intorno, che un giorno tutto questo finirà, ci getta nell’angoscia che è una conseguenza del timore ma ne è, successivamente, anche il motore principale.
La sopportabilità dell’esistenza è, in fondo, data dalle incognite, dall’impossibilità di sapere. Sapere, dicevano i padri della Chiesa, è soffrire e aumentare il proprio sapere è aumentare di conseguenza la propria sofferenza. Ma è inevitabile, perché l’anelito è quello di chi umanamente vorrebbe superare i confini dell’umano ed elevarsi quindi ad una condizione di ultra-vita, di un post mortem che sia un nuovo principio e non una fine.
Hobbes farà della paura una caratteristica etico-politico-sociale dello Stato che deve per forza incutere paura, se vuole farsi rispettare e obbedire come potere costituito, come organizzazione dell’umanità in un dato territorio. Una volontà, quella dello Stato, che poi per il filosofo coincide con quella del popolo stesso che, dandosi un potere assoluto di controllo finirebbero col realizzare la propria natura, il proprio desiderio di vivere secondo uno stato di natura.
Ma la concezione assolutista hobbesiana qui ci interessa fino ad un certo punto, perché la nostra piccola indagine verte su quella paura che prescinde dal “semplice” timore per le istituzioni o per un “dio“. Molto più stimolante è cercare di comprendere non tanto l’origine antropologica del timore, quanto la sua necessità costante nel tempo. L’essere umano, così come gli altri esseri viventi, non sono naturalmente predisposti per vivere prescindendo dalla paura.
La paura ci è congenita, è connaturata all’umanità, anzi all’animalità. E’ una violenza naturale che ci abita e che non possiamo espungere ed estromettere da noi stessi. E’, quindi, al pari del godimento, un elemento, potremmo dire, “fisiologico” del nostro essere e si manifesta ogni volta incontriamo qualcosa o qualcuno che percepiamo come una minaccia al nostro fragile equilibrio psicosomatico. Ma questa minaccia da cosa proviene, cosa la fa nascere?
Proviamo a rovesciare il ragionamento: cos’è che ci rende sicuri, calmi, tranquilli. Ciò che conosciamo, ciò che l’esperienza ci ha portato a sperimentare come qualcosa (o qualcuno) che non ci è ostile e che, anzi, magari ci reca giovamento nel contatto, nell’assunzione: dal cibo ad altri beni di consumo; dalle relazioni singole quanto a quelle collettive e di gruppo.
Dunque, seguendo anche la logica hobbesiana, ciò che ci fa paura è sempre ciò che non conosciamo o che non possiamo vedere. Ciò che può farci incappare nell’errore o in quello che crediamo essere un errore. Qui non possiamo non citare l’utilitarismo negativo di Popper e il famoso (almeno si spera sia ancora tale…) dell’uomo nero e del cappello. Proviamo a raccontarlo.
Pensiamo ad un uomo di carnagione scura, proprio nera. Si trova in una stanza completamente buia. Quindi nera anch’essa. In quella stanza lui sta cercando un cappello. Indovinate di che colore? Nero. Vi chiederete come possa fare un uomo nero in una stanza immersa nell’oscurità assoluta a trovare un cappello per giunta nero. Giusta domanda. Infatti quell’uomo ha difficoltà a trovare il copricapo. Tasta per terra, ma non lo trova.
Possiamo chiamare questo fallimento un “errore“? L’uomo ha provato a rintracciare il suo cappello, ma il suo tentativo non è andato a buon fine. Popper risponde negativamente. Non è un errore, perché – citando anche il maestro Yoda nell’ultimo episodio della trilogia sequel di “Star Wars” – «grande maestro il fallimento è». Dai nostri errori, infatti, impariamo. E’ l’esperienza.
L’esperienza della paura, dunque, ci insegna che non vogliamo mai ripetere qualcosa che ci rifaccia provare quella sensazione o incappare in quel disagio. E’ l'”evitamento” di cui si tratta in psicoanalisi, per cui si sfugge alla situazione che genera il disagio e, così facendo, ci si limita proprio nell’esistenza, nel campo della vivibilità della vita.
La paura non deve avere questa funzione che, infatti, è tipica dell’ansia e delle crisi di panico. La paura deve avere uno scopo esattamente opposto: permetterci di razionalizzare senza confondere timore sentimentale e osservazione razionale. La paura è la precondizione non per aggirare gli errori o i disagi, ma per affrontarli direttamente.
Se siamo consapevoli di ciò che sappiamo, dobbiamo anche esserlo di ciò che non sappiamo e non inventare dei pregiudizi in chiave difensiva, bensì indagare a fondo per provare a capire e quindi per uscire da una condizione di infantilismo della ragione, di puerilità delle emozioni.
Volutamente qui, pur scrivendo della paura, non si è citato Hans Jonas. Il novecentesco filosofo della paura e del “nuovo imperativo categorico” va trattato da un altro punto di osservazione e, prima o poi, ci ritroveremo anche con lui nel portico delle idee. Non abbiate paura (in un altro senso ancora…): parleremo anche di lui. Un giorno. Le paure moderne sono diverse da quelle dell’antichità, ma quelle di sottofondo, quelle primarie, restano.
Eccome se restano…
MARCO SFERINI
7 gennaio 2024
foto: particolare de “La madre morta e la bambina” di Edvard Munch (1889, scoperto nel 2005), tratto da Wikipedia; sul lato destro, ritratto di Thomas Hobbes