Di nuovo c’è ben poco. Ma, almeno, l’intervista di Giuliano Amato a “la Repubblica” ha il merito di riportare all’attenzione dell’opinione pubblica e dei governi quella verità sottaciuta nel migliore dei casi, depistata in quello peggiore e che, per lungo tempo, fu il substrato su cui si costruirono una serie di invenzioni menzognere sulla strage di Ustica, sulla fine in fondo al mare del DC9 dell’Itavia.
In quello straordinario film, dalle capacità empatiche davvero notevoli, che è “Il muro di gomma” di Marco Risi, in cui un bravissimo Corso Salani interpreta il paziente lavoro di inchiesta di Andrea Purgatori che, più di tutti, si dedicò alla tragedia del 1980 in cui persero la vita ottantuno civili innocenti che viaggiavano da Bologna a Palermo, la verità viene fuori dalle contraddizioni che i depistaggi producono inevitabilmente.
La verità che tutti sanno e che nessuno può con certezza affermare è che la notte del 27 giugno nei cieli sopra il Mar Tirreno era in atto una operazione militare che mirava a mettere fine alla vita del colonnello Gheddafi, leader libico, amico dell’Italia e dei paesi non allineati ma con uno sguardo attento alla reciprocità degli interessi fra Tripoli e Mosca.
Un mig libico stava viaggiando nello spazio aereo italiano, uno o più aerei, che oggi Giuliano Amato rivela essere stati francesi, tentarono di abbattere l’aereo su cui si trovava il dittatore ma a farne le spese fu il DC9 che si trovava al momento sbagliato nel posto sbagliato. O, per meglio dire, seguiva la sua rotta su cui non ci sarebbero dovuti essere né altri aerei civili, né tanto meno militari o missili diretti a mettere in pratica un capovolgimento della politica internazionale.
Quello che Amato sembra rivelare oggi è ciò che già si sapeva, anche se non si è mai potuto affermare quale fosse la provenienza di quel missile che perforò l’aereo e fece rientrare le lamiere, escludendo quindi del tutto sia il primordiale tentativo di depistaggio parlando di “cedimento strutturale“, sia il depistaggio più lungo, sostanzioso e univocamente accettato dai vertici di allora dell’aeronautica militare che parlarono della “bomba a bordo“.
Il mistero di Ustica, tra i tanti misteri che costellano la storia della Repubblica Italiana, è forse quello in cui le zone d’ombra persistono ma solo accanto ad una verità conosciuta: gli ottantuno morti sono le vittime di una guerra di posizione, di un conflitto geopolitico, economico e militare tra gli Stati della NATO e una parte del mondo di allora che era contraria a quell’unipolarismo che gli Stati Uniti erano intenzionati ad imporre al resto del pianeta.
Gheddafi era amico dell’Italia. Lo era stato fin dai tempi del suo colpo di Stato, quello in cui la monarchia di re Idris venne messa da parte e si inaugurò una via politico-militare ad un regime che mescolava tratti socialisteggianti nella “Terza via universale” ad un panarabismo che guardava all’unità dei paesi tanto africani quanto mediorientali contro l’imperialismo americano e la prepotenza del braccio armato che aveva impiantato nel nord-atlantico.
Gheddafi era amico dell’Italia perché i pozzi petroliferi dell’ENI erano rimasti praticamente nelle sue mani all’atto del cambio di regime ed il governo della nostra Repubblica ritenne opportuno non interrompere le relazioni con Tripoli, quasi unico nella crescente Comunità Europea, certamente unico nel settore geopolitico che oggi potremmo definire come l'”Occidente“.
Sono passati oltre quattro decenni dalla strage di Ustica e sembra logico chiedersi perché Giuliano Amato si sia deciso solamente oggi a rilasciare questa lunga intervista in cui, praticamente, accusando la Francia della tragedia consumatasi ne chieda formalmente le scuse da parte dell’Eliseo. Macron, al momento, si trincera dietro un “no comment” che, però, non essendo una smentita suona già come una ammissione di colpa.
Secondo Amato il piano per uccidere Gheddafi era stato ideato come simulazione di una esercitazione proprio della NATO sui cieli italiani. Una azione interalleata di cui avevano già riferito altri politici eminenti dell’epoca. Tra tutti Francesco Cossiga che, al momento della strage, era capo del governo italiano. Amato, però, avvicina le ipotesi e parla di credibilità delle stesse. Non mette, perché non può, la parola fine ad una vicenda tanto contorta quanto semplice da sbrogliare.
«La versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno. Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. E il piano prevedeva di simulare un’esercitazione della NATO, con molti aerei in azione, nel corso della quale sarebbe dovuto partire un missile contro il leader libico: l’esercitazione era una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l’attentato come incidente involontario».
Tutto ciò, riferito dalle colonne di uno dei più autorevoli quotidiani italiani, non può non avere la fisionomia della verità conoscibile ma indicibile per tanto, troppo lungo tempo. Sono parole che provengono da un ex capo del governo, ministro più volte, importante esponente del PSI di Bettino Craxi a cui lo stesso Amato fa riferimento quando introduce una novità in questi scenari di penombra spionistica. Fu il leader socialista ad avvisare Gheddafi del pericolo e farglielo scampare.
Circostanza tutta da provare. Oggi sappiamo che fu un missile ad abbattere il DC9. Sappiamo che quella sera la famosa esercitazione tra gli alleati della NATO c’era ed aveva lo scopo di dissimulare il vero scopo della presenza di tanti aerei nella zona in cui sarebbe dovuto transitare il Mig libico. Sappiamo che le menzogne degli altri vertici militari hanno coperto una parte della verità, perché senza la presenza dell’aereo civile in mezzo a quella guerra non dichiarata, non avremmo mai saputo nulla di tutto questo.
Ma il sacrificio non voluto e non cercato di ottantuno civili andrebbe almeno onorato, dopo tanti decenni, con la completezza del quadro, con la fine di ogni reticenza, con l’esclusione delle ipotesi e l’affermazione, sic et simpliciter, tanto di una verità processuale quanto di una storica.
Il ruolo della NATO in tutto questo è il principale asse di un nocumento che ha attraversato la storia d’Italia e dell’Europa e ha fatto da contraltare alle legittime sovranità in materia di politica tanto interna quanto estera. La descrizione del nostro Paese come di una colonia americana non era un’esagerazione negli slogan delle manifestazioni e negli articoli dei giornali comunisti e progressisti ieri e, osservando più da vicino quanto accade in Ucraina, non lo è nemmeno oggi.
La politica italiana degli anni ’70 – ’80 del Novecento, quella per intenderci dei governi guidati da Andreotti e da Craxi, aveva improntato la linea della politica estera italiana sulla fedeltà al patto atlantico, sul riferimento costante alla parte occidentale “libera” e “democratica“, ma non aveva mai tralasciato di rapportarsi con quelle aree di interazione multipolare che, sostanzialmente, erano centri di conflitto internazionale inseriti in un contesto storico di frapposizioni: la Palestina dell’OLP, la Libia di Gheddafi, il Libano.
La nuova fase dell’imperialismo moderno, invece, aveva escluso da tempo, dopo la caduta del blocco sovietico, qualunque concorrenza in merito, riuscendo quasi nell’impresa di stabilire un unipolarismo globale.
I primi venti anni del nuovo secolo hanno dimostrato che si trattava di una visione miope, restrittiva, incapace in parte di prevedere gli effetti della globalizzazione spinta all’eccesso dall’economia americana e dai suoi satelliti; ma che, pure, si era trattato di una sottovalutazione delle potenzialità dei giganti asiatici, mentre si era data troppa fiducia all’esperimento dell’Unione Europea.
La tragedia di Ustica, calata nell’odiernità di ricordi e di interviste che sollecitano una memoria dei fatti precisa e circostanziata, ci restituisce di continuo una attitudine alla meticolosa indagine, alla peregrinazione tutt’altro che inutile nelle reciprocità tra le politiche estere dei vari Stati europei e degli USA.
E’ un esercizio utile per comprendere senza altri orpelli gli intrighi che si intrecciarono in quei decenni di guerra ancora fredda in cui i grandi governi di allora non avevano – come del resto non hanno mai avuto – alcuno scrupolo a mettere in pericolo le vite dei loro stessi cittadini per interessi di parte.
Alla luce di quanto rivelato o ribadito, se proprio vogliamo essere fedeli ad un rapporto non dimesso con la criticità del dubbio, da Giuliano Amato, sarebbe bene (il condizionale è d’obbligo visto a chi stiamo per riferire) che il governo italiano non lasciasse cadere il tutto in una non considerazione di altre ipotesi affidate al metodo di indagine storico; ma invece aprisse un nuovo capitolo, facendo la sua parte istituzionale e politica, istituendo una nuova commissione ad acta, per riesaminare soprattutto quello che già sappiamo.
Da lì possiamo partire per conoscere meglio, per conoscere di più quello che veramente avvenne nei cieli di Ustica il 27 giugno del 1980. Il muro di gomma non è ancora oltrepassato, perché la domanda di Marco Risi, sottotitolo e sintesi del film è e rimane: “In Italia esiste la verità?“.
Chiaro, in senso filosofico non è ottenibile. Ma dentro un perimetro di pragmatismo della politica e delle istituzioni, possiamo ancora lottare per mettere insieme tanti pezzetti del vero che, prima o poi, rendano trascurabile il falso o, quanto meno, lo surclassino.
MARCO SFERINI
3 settembre 2023
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