Una momentanea fuga a Sanremo

Preferisco concentrarmi su “Sanremo” (e non è certo la prima volta che lo faccio). Sono in overdose di programmi televisivi, articoli di giornali e mattinali che strepitano tutte le...
Lodovico "Lodo" Guenzi e Francesco "Checco" Draicchio durante l'esibizione a Sanremo 2021

Preferisco concentrarmi su “Sanremo” (e non è certo la prima volta che lo faccio). Sono in overdose di programmi televisivi, articoli di giornali e mattinali che strepitano tutte le più ardite controversie sul Covid-19.

L’epidemia avanza, prosegue il suo cammino, si riprende la rivincita che le spetta dopo che centinaia di gente con le pigne in testa si radunano per aperitivi, conventicole varie. Si abbracciano, siedono sugli scalini di sagrati ecclesiastici l’uno accantissimo all’altra (o all’altro); si scambiano i telefonini, si parlano bocca a bocca. Manca il bacio alla francese, che in tempi normali dovrebbe essere reso quasi obbligatorio come forma emerita di godimento primordialmente orale, e poi qualunque occasione per dare ottimi spunti al coronavirus per avanzare impetuosamente è esperita con grande stupidità.

Preferisco, dunque, “Sanremo“, perché guardare il festival mi distrae, mi fa pensare che alcuni siparietti tra Amadeus e Fiorello sono persino carucci: altri sono decisamente ridicoli (le dita dei piedi, tanto per citarne uno…). Ma lo spettacolo deve accontentare un po’ tutto: del resto, è nazional-popolare e in questa definizione c’è tutta la funzione apotropaica che si richiede ad un evento musicale in evidente stato di crisi da pandemia. Lo dicono le costosissime poltrone vuote, riempite con palloncini sorridenti, pensierosi, cogitabondi forse col piglio del critico musicale che ascolta attentamente tutte le sfumature delle canzoni.

L’esorcismo è sufficientemente laico, nonostante Amadeus si faccia il segno della croce prima di iniziare la kermesse e poi arguisca, tra una battuta e l’altra, «Che dio ce la mandi buona», evitando di citare indirettamente la serie di Elena Sofia Ricci, espressamente vocativa verso l’altissimo essere supremo. Mentre le giovani proposte in gara si esibiscono con coraggio, tra i bei visini puliti dei fratelli Dellai e la simpatia contagiosa di un sorridentissimo Avincola, imbarazza davvero la presenza da maggiordomo di casa Addams interpretata da un icastico (molto poco capace di recitare anche quattro battute di autori certamente disperati) Zlatan Ibrahimovic.

Altezza mezza bellezza, ma niente di più. Sarà antipatia preventiva, pregiudizio di classe (visto il mega yatch da 20 milioni di euro con cui s’è presentato al porto di Sanremo). Non penso ad una antipatia sportiva, visto che faccio il tifo solo per la nazionale e non mi interessa il campionato di calcio. Ma, se serve, per qualche sera a lasciare in secondo piano la babele di notizie sul Covid-19, la baraonda pandemoniaca di batti e ribatti, di elogi da un lato e stigmi dall’altro su questo o quel vaccino, il colorito più o meno arancione, rosso, giallo o bianco delle regioni italiane, allora ben venga anche l’inutilità di un calciatore altissimo, costosissimo ma che, almeno, darà il suo contributo in beneficenza.

La prima serata non parte bene e spinge quasi a cambiare canale, alla tentazione di sbirciare se sia quasi meglio rivedere sulla grande Rai 5 un altrettanto grande film con Maggie Smith: “The Lady in the van“. Un bellissimo inno ad una vecchiaia emarginata, solitaria ma desiderosa di non scindersi dalla società. Impicciona quanto basta per simboleggiarsi da sola, senza bisogno delle etichette convenzionali e piccolo borghesi altrui. L’amicizia come collante di una umanità che, a volte, anche nei rapporti considerati “legami” si frantuma proprio perché imprigionata nelle abitudini e negli stereotipi imposti da pubblici virtuosimi della buona creanza.

Però, il festival è sempre uguale e sempre diverso allo stesso tempo. Se non altro, anche se non si avranno dei nipoti, servirà per dire: «Vedi, ragazzo, io c’ero davanti alla tv a vedere Fiorello con la mascherina dentro la cabina di Radio 2, a sentire l’appello di Amadeus per Patrick Zaki, ad ascoltare una Loredana Berté che era un incanto di colori, il ritratto della primavera un po’ malinconica che, lentamente, trascinandosi arrivava alla linea di partenza». C’è chi fa politica bene anche quando la fa male, perché “è la politica“; c’è chi canta bene anche quando azzecca una nota su tre, perché “è un certo tipo di musica“. E non si può dire altro.

Qualche messaggio sociale passa, anche duramente, per arrivare in tante zucche vuote: «Al primo schiaffo, denunciate!», ammonisce Loredana. Fossimo stati in una manifestazione per i diritti delle donne, piuttosto che sul palco del teatro Ariston, ben poco ci si sarebbe accorti della differenza: scarpe rosse accanto a se, la Bertè canta un inedito: “Figlia di“, di Loredana, ovviamente, di tutte quelle donne trasgressive, irriverenti, capricciose e piene solo di umanità compressa dalle troppe dita puntate contro. Ma ribelle quanto basta per farsi riconoscere come grande artista e come grande donna, come umana.

I “quadri” di Achille Lauro forse sono meno stupefacenti della prima uscita dello scorso anno, quando completamente ignudo anche con la calzamaglia color pelle, ma la sua voce arriva forte quando parla di “godimento“, di sessualità e di genere. C’è davvero bisogno di immagini forti, dirompenti, che buttino all’aria ogni schema mentale, che producano anche milioni di commenti sui social dove si rigurgita tutto l’odio possibile verso il “diverso“, per sentirsi normali, maggioritari e non esclusivi, particolari e colorati. La mediocrità ha bisogno del grigiore uniforme, delle tinte non appariscenti, ma conservatrici e conservanti, che nuocciono alla salute mentale, restringono il desiderio, lo confinano nelle lande desolate della frustrazione che, solo per l’infinità in cui sta, pare confondersi (anche ipocritamente) con una certa forma di libertà…

Per quanto siano interessanti le analisi scientifiche dei virologi, i loro incontri-scontri da boxe ospedaliera, voi capirete che per qualche sera, in un intero biennio pandemico, ci si può concedere la distrazione anche critica nel vedere “Sanremo“. Zona franca del festival, ma zona quasi rossa per il Comitato tecnico scientifico e per il governo. I numeri delle terapie intensive salgono, le febbri si alzano e tante, troppe mascherine in giro restano abbassate sotto il naso, sotto al mento. L’irresponsabilità è una delle cause delle ondate di Covid-19 che devastano il Paese. E’ sempre spiacevole fare la classifica dei più e meno virtuosi nei comportamenti che dovrebbero salvaguardare la salute di tutti (e di ciascuno): eppure non possiamo fare finta di niente, solo per lo scrupolo di non aggressivizzare ancora di più la popolazione già stremata.

Se si è degli in-coscienti, vuol dire che si è messa da parte la coscienza, consapevolmente, e si agisce per principio egoistico, infischiandosene degli altri e quindi in barba ad ogni evoluzione umana verso una solidarietà collettiva che dovrebbe invece essere il punto di partenza e anche di arrivo di ogni corsa in cui, davvero, sono proprio tutti a dover correre. Chi più velocemente e chi meno, ma nessuno è risparmiato.

Poi sul palco dell’Ariston arriva Lo Stato sociale e tutta questa arrabbiatura si fa silente. Il loro “Combat pop” ti va alzare dal divano, ballare mentre cerchi con lo sguardo Lodo Guenzi e non lo vedi proprio. Sarà dentro lo scatolone che volteggia magicamente intorno all’apprendista Carota? Sorprende, coinvolge, distrae dalle brutture del momento ed è, con la Bertè, il punto più lontano dalla fissità quotidiana sulle tragedie che ci capitano. E un inno alla gioia, una desacralizzazione delle scaramanzie che cotidie ci apprestiamo a fare, col piglio del pensiero magico, per allontanare il peggio: ex malo bonum, ancora una volta. Lodo non canta, esce fuori dallo scatolone, tutto giallo dalla testa ai piedi: ricciolone biondo, giacca riconoscibilissima, menestrello privo di voce che cede al gruppo il ruolo di “frontman” che ha sempre avuto. E’ un messaggio chiaro. Del resto, se non fosse così, non sarebbero uno “stato sociale“.

Mentre persino “Chi l’ha visto?” su Rai 3 si occupa del Covid, è la poesia di Ermal Meta a conquistare un po’ tutti con “Un milione di cose da dirti“. Una quasi banale canzone d’amore, tipicamente sanremese, ma con immagini ben rese da piccole frasi destinate a ritornelli nella mente: «Tu diventi più bella ad ogni tuo respiro / E mi allunghi la vita inconsapevolmente». Un po’ di romanticismo, di coccole sonore, da una voce che ha una estensione improvvisa impressionante. Merita almeno il secondo posto, mentre, fosse anche soltanto per un capriccio di giocondità, Lo Stato sociale meriterebbe il primo.

C’è chi crede ancora che guardare “Sanremo” sia una sorta di perversione della purezza di una coscienza sociale, politica e persino morale non eguagliabile altrimenti. Invece è un lasciarsi coinvolgere – criticamente – in un contesto semplicemente musicale. Chi non lo vuole guardare e ascoltare, perché ha paura di essere meno comunista se si sintonizza queste sere su Rai 1, non lo veda e non lo senta. Ma almeno non ce lo venga a dire. Taccia. Farà veramente più bella figura. Ma tant’è… si sa, «Un bel tacer non fu mai scritto».

MARCO SFERINI

4 marzo 2021

foto: screenshot tv

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