Una lunga storia che guarda al futuro

I csoa, descritti spesso come marginali, sono al centro della vita delle metropoli

Il Leoncavallo in questi mesi festeggia 50 anni di vita. Il Forte prenestino l’anno prossimo ne fa 40. Askatasuna ne ha ormai 30. Soltanto in un paese che ha perso il senso del futuro capita che chi mantiene vive storie ultradecennali, vissute al centro della sfera pubblica e al cuore di eventi nevralgici, venga trattato come se dovesse ancora dimostrare qualcosa. È ciò che emerge dal grottesco processo che riguarda Aska a Torino e dal dibattito pubblico attorno al dialogo apertosi tra l’amministrazione comunale e gli occupanti.

Accade nella ex città operaia. Laddove i ritmi urbani erano scanditi dalle sirene della fabbrica e dove proprio nel lasso che coincide con la storia di Askatasuna è avvenuto il passaggio all’economia dei grandi eventi e della logistica. Accade nella città che ha vissuto da vicino lo scontro durissimo e divisivo sulla grande opera del Tav, attorno al quale si sono ridefiniti linguaggi, immaginari e pratiche del conflitto.

Accade con una destra al governo nazionale che fa di tutto per reprimere e criminalizzare le lotte sociali, spesso mettendosi in scia a tendenze innescate da esecutivi precedenti. Non bisogna stupirsi: le forme di riappropriazione, fisica e simbolica, degli spazi pubblici sono fumo negli occhi per chi trasforma le ingiustizie in rancore, la richiesta di partecipazione in egoismo corporativo, la necessità del conflitto verticale in competizione orizzontale.

Questo clima tossico rischia di oscurare la realtà. Parliamo di un fenomeno che è parte stabile del panorama politico, sociale e culturale di questo paese. Se volessimo fissare un evento fondativo avremmo anche una data precisa: fu nei giorni del Ferragosto 1989, quelli della resistenza allo sgombero del Leoncavallo, che gli anni Ottanta finirono per davvero e nacquero centri sociali in tutto il paese, anche nelle province storicamente meno politicizzate.

E fu sempre per un evento milanese, la rivolta di piazza del 10 settembre del 1994 che seguì mesi di angherie della giunta leghista ancora contro il Leoncavallo, che si aprì il dibattito sulla regolarizzazione degli spazi occupati. Ne derivarono differenti percorsi a volte controversi: a Roma ancora oggi si cerca di trovare la quadra tra necessità di stabilità e vincoli legali asfissianti.

Di certo c’è che i centri sociali, definiti negli anni Novanta da Le Monde «il fiore all’occhiello della cultura italiana» sono tutt’altro che marginali: hanno ospitato generazioni di nuovi militanti, reinventato il mutualismo e cambiato il modo in cui si produce e si consuma la cultura. È solo la punta dell’iceberg, ma bisogna indicarla ai distratti osservatori. Dal milieu dei centri sociali sono usciti finalisti al premio Strega e fumettisti scala-classifiche.

In quella scena si sono esibite le avanguardie e hanno mosso i primi passi alcuni dei nuovi protagonisti della musica. Sulle tavole dei palchi autocostruiti hanno recitato attori poi assurti sui grandi schermi. Le elaborazioni teoriche che hanno attraversato questi spazi sono da tempo parte del grande dibattito globale.

Fu questo giornale a ospitare il dibattito sui centri sociali come sfere pubbliche non statuali, ben prima che il concetto di bene comune entrasse nel lessico politico. E furono Primo Moroni e Aldo Bonomi a proporre la riflessione sui csoa come «imprese sociali»: una sfida sul suo stesso terreno, ardita e non priva di contraddizioni, al capitalismo postfordista. Serviva anche a comprendere che i centri sociali, e la loro vita a cavallo tra sfera sociale e politica, tra dimensione sottoculturale e lessico ideologico, non sono stati la semplice riproposizione, magari in forma più radicale o con pose più militanti, della sinistra novecentesca.

Col nuovo millennio la miriade di centri sociali sparsi nel paese non è riuscita a trasformare quel coacervo di linguaggi, pratiche quotidiane, sperimentazioni in una forma riconoscibile e accessibile ai più e in grado di misurarsi con il collasso della sinistra politica.

Per di più, e forse anche per via di questa debolezza, gli spazi sociali sono stati saccheggiati: non si contano i casi in cui installazioni artistiche o eventi che rimasticano codici culturali e pratiche underground hanno fatto da preludio a smaccate operazioni speculative: basta guardare al quartiere romano di San Lorenzo. Il tema è in fondo classico: il rapporto tra la produzione di valore e l’appropriazione privata della ricchezza.

Eppure, e forse proprio per questo, questa storia parla a un futuro che non è ancora scritto. Perché l’intreccio tra elaborazione culturale, costruzione di immaginario, nuove forme della politica radicale, mutualismo e autogoverno territoriale, tocca nodi ancora inaggirabili.

GIULIANO SANTORO

da il manifesto.it

foto: screenshot

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Cronache

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