I propugnatori della legge sull’autonomia differenziata sostengono, non si sa bene quanto convintamente e quanto pelosamente, che questo strano, bislacco e avventuristico disegno di devoluzione dei poteri dallo Stato alle Regioni incentiverebbe alla responsabilizzazione delle stesse nel garantire sempre maggiori servizi ai cittadini.
E’ un argomento piuttosto interessante perché, se davvero fosse così, basterebbe affidarsi al principio di una sussidiarietà controllata e reciprocamente controllabile con apposite leggi sui livelli essenziali di prestazioni (LEP) per avere la quasi certezza che, d’ora in avanti, nulla sarà più affidato alle conventicole tra impresa e politica, ma solo allo della norma interpretato da una sorta di naturale, istintivo e costituzionale lavoro per il benessere sociale e comune da parte di tutti gli enti amministrativi ed istituzionali.
Purtroppo, sebbene la retorica della maggioranza di governo sia così altamente fiduciosa nella benevolenza delle sue ramificazioni regionali, ciò non è affatto sufficiente per convincerci che fatta la legge non scatti anche l’inganno o, per meglio dire, non si adatti la medesima a tutta una serie di consorterie molto private e privatistiche che, ormai da tanto tempo, uniformano molto di più gli atti normativi delle regioni rispetto all’interesse veramente pubblico che, a sua volta, dovrebbe provenire da una concezione universale dei diritti (e dei doveri).
Il progetto dell’Autonomia differenziata voluto dalla Lega, barattato col progetto di premierato preteso da Meloni e dal suo partito, con una Forza Italia pressoché silente in entrambi i casi, non fa altro se non affermare il dettame che riguarda essenzialmente la difesa del privilegio di una ricchezza che proviene, tra l’altro, da una opportunità data da contingenze produttive locali che possono generare maggiore gettito perché storicamente alcune regioni italiane sono maggiormente inserite in contesti mitteleuropei e internazionali.
Calderoli e Salvini non fanno altro se non applicare i vecchi particolarismi macroregionali, sognati un tempo con la teorizzazione della secessione della “repubblica del nord” prima o della “padania” poi (aberrazione che non merita nemmeno la lettera maiuscola) e, insistendo sull’argomentazione dell’applicazione dell’articolo 116 della Costituzione (mediante le ulteriori specificazioni contenute in quello seguente, dove si elencano le potestà legislative dello Stato e quelle spettanti alle Regioni), mascherano il tutto come una ragionevole attuazione di quanto era già stato introdotto nella Carta fondamentale con la riforma del Titolo V.
Cosa se ne dedurrebbe, fin troppo semplicisticamente e, per questo, ottimo presupposto propagandistico per affermare che chi si oppone lo fa pregiudizialmente…? In sostanza che la maggioranza di estrema destra non sta violando il principio di autonomia contenuto nella Costituzione ma, anzi, lo sta proprio mettendo in pratica con la controriforma lancia in resta di Calderoli.
Niente di più ipocrita e falso.
Va detto così, senza mezzi termini; almeno alla pari della sfacciataggine con cui il governo tenta di cambiare le fondamenta della Repubblica da realizzazione sostanziale di una uguaglianza a cui tendere, come base fondante dello Stato unitario, a teorizzazione di un nuovo rapporto tra regioni ricche e povere in cui sia non l’universalità dei diritti ad essere il punto di partenza e di arrivo dell’azione politica degli enti locali, ma la capacità produttiva di un territorio, la sua potenzialità economica che dovrebbe rimanere quasi completamente a disposizione soltanto di quella regione.
Oggi, ciò che arriva allo Stato dalle comunità locali, in termini di PIL, viene redistribuito sulla base di un criterio costituzionale che non distingue a seconda della maggiore o minore ricchezza delle regioni. Oggi tutti danno quel che devono e (in teoria) ricevono quello di cui hanno bisogno.
Molto in teoria, ma almeno il principio rimane quello di un mutuo soccorso tacito e condiviso. Con l’introduzione dell’Autonomia differenziata, proprio perché tale, la differenza la farà proprio la rottura di questa “solidarietà nazionale“, il suo superamento praticato mediante il premio ai virtuosi e la penalizzazione per gli ultimi della classe.
Le regioni del nord, più ricche e benestanti rispetto a quelle del centro-sud, riceveranno in pratica più soldi di quelli che verseranno all’erario; quelle più povere, di contro, ne riceveranno di meno.
La spaccatura è netta, facile anche da descrivere, molto più difficile da spiegare nel concreto, perché qui intervengono tutta una serie di rapporti anche tecnici per cui, tempi, modi e traduzioni nella pratica quotidiana dei rapporti nuovi tra Stato e regioni sarà tutt’altro che semplice anche per i teorizzatori della magnificente riforma che la Lega sembra possa portare a casa nella compiacenza di una maggioranza di governo che sta insieme per fare non gli interessi comuni, ma quelli dei suoi singoli componenti.
Secondo quanto scritto nella legge approvata in prima battuta dal Senato, saranno ventitré i raggruppamenti di materie di intervento in cui la devoluzione dei poteri potrà essere richiesta dalle regioni allo Stato. Gli enti locali potranno decidere di richiedere di sostituirsi al governo di Roma su alcuni come su tutti questi settori.
Potranno farlo con tempi e modi stabiliti di comune accordo e saranno tenuti a seguire le linee dei Livelli essenziali di prestazioni che, nella sostanza, dovrebbero ricalcare il vecchio impianto solidaristico nazionale nel non andare al di sotto di determinate soglie di garanzia per i servizi pubblici.
Nella controriforma di Calderoli e Salvini non c’è nessun cenno in merito al debito delle singole regioni: che fine farà il disavanzo della Lombardia? E quello della Sicilia? Siccome le quote delle prestazioni non sono mai state definite, sembra difficile che, con (la pur ancora lontana e forse scongiurabile) entrata in vigore di questo obbrobrio antifederalista e antisociale, si possa giungere presto e volentieri ad un calcolo delle rispettive spettanze, per fare in modo che il debito del nord non gravi su un Mezzogiorno già così tanto vessato dal disequilibrio ampliato dagli ultimi decenni di politiche liberiste.
Se le regioni mediamente più ricche tratterranno per sé il maggior quantitativo di risorse, sottraendolo così alle casse nazionali, come si potrà fare fronte alla già abnorme crescita del debito pubblico (con cui viene finanziata anche buona parte delle leggi di bilancio annuali per capitoli di spesa tutt’altro che irrilevanti o secondari)?
Il pasticcio leghista non solo crea zone di serie A e altre di serie B, per cui nascere a Milano piuttosto che a Catania vuol dire stare meglio tanto sul piano oggettivo quanto su quello “legale“, di un diritto quasi “naturale“, ma ipoteca tutta una serie di mancanze verso terzi da parte dello Stato e affida il tutto ad una incertezza inquietante.
L’Autonomia differenziata consente alle regioni di restituire allo Stato, nel primo anno dalla sua applicazione, l’esatta cifra erogata ai territori. Negli anni immediatamente successivi, se le entrare regionali fossero maggiori, non è dato sapere che cosa avverrebbe di quello che si può definire l'”extra-gettito“.
Silenzio assenso affinché il tutto rimanga nelle casse locali e non vi sia nessun trasferimento alle casse nazionali? Così, uguale e contrario, vale l’esempio dell'”intra-gettito“, quindi di un sottosviluppo economico che non consenta alle regioni meno virtuose di raggiungere quanto versato l’anno precedente. In quel caso, chi copre la mancanza?
L’uniformità delle prestazioni pubbliche, lungo la fascia dei servizi essenziali, dalla sanità alle infrastrutture, dalla scuola ai servizi sociali, dalla cura del territorio stesso alla preservazione delle particolari espressioni economiche di aziende con produzioni specifiche nell’ambito della gastronomia locale, del turismo, della tutela delle specificità locali, viene intaccata a monte: se chi ha di più si terrà di più e chi ha di meno non potrà tenersi nemmeno quello che ha, il cortocircuito sarà veramente deflagrante.
I diritti sociali non saranno più potenzialmente uguali per tutti e, quindi, non lo saranno nemmeno lontanamente dal punto di vista sostanziale, pratico, reale e realizzabile nell’erogazione dei servizi veramente essenziali per la vita di tutti i giorni. La Costituzione della Repubblica parla di autonomia regionale ma, e qui si contraddice frontalmente l’argomentazione calderoliana e salviniana sulla buona fede da parte del governo dell’applicazione, con l’Autonomia differenziata, degli stessi enunciati della Carta del 1948 in merito, lo fa sempre e soltanto nella comprensione di un principio egualitarista senza se e senza ma.
La Costituzione non mette avanti a tutto la produttività imprenditoriale e la ricchezza particolare di alcune parti del Paese rispetto ad altre parti svantaggiate; mette anzitutto in prima istanza la necessità di un trattamento uguale da nord a sud, da est ad ovest per tutti i cittadini, senza alcuna distinzione.
L’articolo 3 parla di “dignità sociale” e fonda su questo riconoscimento uguale per ognuno, uguale per chiunque, la ragione d’essere della Repubblica, della democrazia, del consesso civile. Citarlo e ricitarlo non fa mai male, lo stesso articolo afferma che è compito della Repubblica stessa «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Con l’Autonomia differenziata gli ostacoli vengono creati nel momento in cui si distingue sulla base delle possibilità dell’uno rispetto all’altro e si consente ai più ricchi di giovarsi di quella ricchezza in esclusiva, senza che venga ripartita, così come il debito e la povertà di altri territori, nell’ambito del contesto nazionale, suddiviso equamente e ugualmente tra tutto il popolo italiano. Un terzo della nazione, gli oltre venti milioni di abitanti del Mezzogiorno, resterebbero al di fuori dei meccanismi perversamente virtuosi della controriforma di Calderoli.
Una riforma fatta solo per premiare le regioni del nord, per sostenere una economia che dall’essere interpretata da princìpi liberali, capaci di mediare in un certo modo tra esigenze sociali e pretese private, passa alla pratica della privatizzazione dei servizi che sarebbe prerogativa dei presidenti di Regione. Anche qui, il principio generale è contenuto nella legge ma manca tutta una serie di specifiche per poter comprendere appieno l’impatto devastante di queste normative.
I pretesti affinché tutto questo potesse realizzarsi sono stati dati già in precedenza a queste forze reazionarie, rivoluzionarie nella conservazione dei privilegi di grandi ricchi e delle regioni ricchissime (rispetto a quelle poverissime del meridione): di questo ne ha colpa anche il centrosinistra che ha favorito una serie di regionalizzazioni delle competenze un tempo esclusive per lo Stato. Nel 2018, tanto per fare un esempio Gentiloni, allora presidente del Consiglio, stabilì con la Regione Veneto una specie di “pre-intesa” sui ventitré capitoli di gestione citati nell’articolo 116 della Costituzione.
Voleva essere un raffronto indubbiamente di altra natura rispetto a quello che si sarebbe poi tramutato in una spinta iper-regionalista. Ma non c’è dubbio sul fatto che, qualora si fosse ravvisata la necessità di una diversa interpretazione dell’autonomia, così come prevista dalla Costituzione, già allora la tendenza era quella di separare i contesti, di non ragionare nel complesso dell’unità nazionale fondata sulla coesione dei doveri e sull’espansione dei diritti uguali per tutti e non diversi da ragione a regione.
E’ pur vero che, storicamente, questo nostro Paese affonda le sue radici storiche nel comunalismo, nelle piccole patrie locali, nella particolarità piuttosto che nella grande idea di nazione che, invece, hanno, tanto per fare il solito esempio, i francesi.
La Storia ci penalizza in questo frangente. Ma non ha certamente colpa di quello che sta avvenendo. La Lega riesce oggi, come forza di minoranza della maggioranza, come partito passato dal federalismo di Miglio al secessionismo bossiano, dal padanesimo all’utilitaristico nazionalismo salviniano, ad imporre una controriforma che va nella direzione di quella “arlecchinizzazione” che, molto efficacemente, Bersani ha reso come immagine futura dell’Italia.
Non c’è alcuna pregiudiziale anti-autonomista nel dire NO seccamente a questo progetto di separazione del Paese operato nel nome della “secessione dei ricchi” contro i poveri. Anzi, vi è proprio la ripresa del tema dell’autonomia per come i Costituenti lo avevano individuato dopo decenni di repressione delle differenze economiche, sociali e culturali portate avanti dal fascismo. I fanatici costruttori dell'”impero italiano” di ieri erano incapaci di vedere nelle particolarità locali una delle ricchezze del Paese.
I più interessati sovranisti e finti nazionalisti di oggi si barcamenano tra pretese liberiste da un lato e mantenimento del consenso dall’altro. In Europa subiscono e in Italia fanno la voce grossa, aulicamente declamando una uguaglianza sociale che cade preda di una logica in cui chi ha può dormire sonni relativamente tranquilli, chi non ha è costretto a rivivere ogni notte (ed ogni giorno) gli stessi incubi tanto nel presente, quanto nel futuro.
Di fronte a questo pericolo va costruita la più grande unità di salute pubblica mai vista nella storia recente dell’Italia moderna. Va messo in piedi un fronte di unità nazionale che metta al primo punto la questione della dignità sociale come pietra angolare di ogni altro diritto compreso e tutelato dalla Costituzione.
E’ una lotta di portata davvero straordinaria, al pari dell’impatto a cascata che avrebbe sulla vita di tutti e di ciascuno questo atto eversivo contro i più poveri, contro i meno garantiti, contro l’essenza stessa della Repubblica Italiana. Fermiamo l’Autonomia differenziata, fermiamo questo governo e mandiamolo a casa il prima possibile.
MARCO SFERINI
25 gennaio 2024
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