Ci sono voluti almeno mille anni prima che, dalle origini del pensiero cosiddetto “occidentale“, si oltrepassasse la metafisica del dolore e, al di là di pensieri magici e di attribuzioni dello stesso alla sola sfera emotiva e ultrasensibile, lo si potesse, almeno materialmente, collocare nella sua sede originaria: il cervello. Diversa è la storia del concetto di “sofferenza” che, per l’appunto, appartiene ad un filone di analisi e di studi in cui la psiche ha un ruolo determinante nel mostrare e dimostrare la ciclicità tra mente e corpo.
Prima dell’avvento del Cristianesimo come religione dominante, come esclusivismo filosofico-teleologico della cultura europea, la concezione del dolore più volte descritta come essenza della natura stessa, come complemento dell’esistenza e, quindi, come presenza inevitabile della e nella vita umana e animale (quindi degli esseri senzienti), è introdotta in alcuni scritti platonici: lì si parla di una dualità del dolore. Ovviamente quello fisico, ma pure quello “morale“.
Differentemente dai presocratici, Platone preannuncia la liturgia del dolore che i cristiani porranno in uno dei centri focali della loro interpretazione della finalità della vita, descrivendolo come un mezzo di espiazione delle colpe. Per la Chiesa diventerà il viatico attraverso cui mondarsi dei peccati (anche se non di quello “originale“) e indirizzarsi nel cammino della maggiore vicinanza a dio e, quindi, a quell’eternità della vita che, proprio perché esclude una nuova morte, è di per sé assenza del dolore primordiale.
Ed il dolore primordiale è la consapevolezza tutta animale (quindi fortemente umana) della finitezza dell’esistenza, della sua ciclicità compresa tra nascita, crescita, invecchiamento e morte. La funzione religiosa nella storia del dolore e della sofferenza è determinante ancora oggi nella traduzione pratica che operiamo quando consideriamo entrambi riferiti a noi stessi e, di conseguenza, poi anche a chi ci circonda. Provare dolore vuol dire – come osserva acutamente Salvatore Natoli – percepire anzitutto il proprio corpo e non la vita nel suo insieme.
L’esempio dell’acqua attinta dalla fonte è, a questo proposito molto utile. Se noi stiamo passeggiando in campagna in una giornata estiva e ci sentiamo accalorati e arsi dal sole, alla prima fonte che troviamo accorreremo per dissetarci e rinfrescarci. Nel bere e nel bagnarci il viso e le mani, proveremo delle piacevoli sensazioni. Ma se, per caso, noi avessimo delle ferite aperte in bocca o sui palmi e i dosi degli arti, allora la prima sensazione che avremmo sarebbe quella del dolore.
Ed immediatamente noi ci troveremmo nella condizione di sentire anzitutto ciò che il nostro corpo spiacevolmente prova e che, dunque, fa mettere da parte il sollievo per la frescura ritrovata sotto il sole cocente. Il dolore ci ricorderebbe che tra noi e il resto dell’esistenza c’è la barriera della fisicità che siamo. Nel momento in cui proviamo delle sensazioni (ed il senso è quasi sempre molto soggettivo e personale), l’universalità del danno provocato dal dolore si manifesta in tutta la sua essenza quasi primordiale.
Ciò non significa che l’acqua non ci abbia dato ristoro. Ma il ricordo che avremo di quel momento sarà, anzitutto, quello doloroso del contatto fra l’acqua fresca e le ferite aperte. La sopportazione del dolore, dunque, è un tratto psicosomatico di una condizione che può essere anche comune: quando si condivide un’esperienza non piacevole e, quindi, si passa attraverso le forche caudine della sofferenza estrema, l’essere umano – cosciente della propria caducità – sovente riscopre una mitezza che allontana l’orgoglio e l’alterigia.
Questo perché il dolore ci mette tutti quanti davanti alla problematica dell’insensatezza dell’esistenza e ci rende quindi molto più piccoli rispetto alla titanicità di eventi che non sono gestibili con la nostra intelligenza, con la nostra esperienza e con la sicumera che ci è propria quando nulla ci minaccia, nulla ci mette in pericolo. Molto facile è disprezzare, irridere e provocare il dolore, mentre assai più complicato è sopportare il proprio dolore facendo finta di esserne psicologicamente immuni.
Il dolore fisico parla alla mente, così come la parola stessa è un tramite per cui, nella comunicazione di ciò che si prova ad altri, si prova a darsi una spiegazione della sofferenza: la condivisione diventa in qualche modo terapeutica. Soprattutto se si tratta di sofferenza psichica e si sente il bisogno di esprimerla per avere delle rassicurazioni, per creare quei presupposti minimi che sono le leve con cui mantenersi in uno stato di presenza a sé stessi e, quindi, pur senza minimizzare il dolore, si prova a contenere il disagio nel suo complesso.
Gli psicanalisti moderni, come James Hillman, tuttavia suggeriscono di vivere la propria sofferenza come una ricchezza: perché il disagio mentale, l’inquietudine, l’ansia, la forma fobica e il panico sono energie naturali endogene che ci vengono a trovare nel momento in cui siamo in conflitto con noi stessi e non esprimiamo compiutamente la nostra essenza. Trattare da proprio alleato l’attacco di panico, senza arrabbiarsi quando sopraggiunge, senza ostacolarlo nel flusso vertiginoso, caldo e ansimante che ci provoca, è il miglior modo per accogliere un disagio che non ci è nemico.
Una concezione nuova della sofferenza, laica e non certamente piegata all’espiazionismo di matrice cattolica: un tentativo di riportare al proprio inconscio quelle spiacevoli sensazioni che, a lungo andare, possono anche influenzare fisicamente il nostro corpo. Le malattie psicosomatiche non sono certamente poche e sono ormai conosciute da secoli. Banalizzando un po’, potremmo dire che, Aristotele non aveva torto quando affermava che la sofferenza proviene dal “cuore“; ma ovviamente sbagliava nel considerarlo anche l’origine del dolore fisico.
Platonismo ed aristotelismo si incontrano, nella descrizione del dolore umano, nel ritenerlo l’effetto di emozioni che sono causate dalle colpe che si sono commesse. Sarà per primo Pitagora ad ipotizzare, al di fuori del recinto metafisico in cui era stato posto, che il dolore abbia la sua origine nel cervello e che, quindi, gli stimoli che riceviamo siano una comunicazione di passaggio nel nostro corpo che ci viene restituita con sensazioni piacevoli oppure di segno letteralmente opposto.
Quando si tratta del dolore e della sofferenza, almeno oggi si inizia a discuterne in termini meno specisti rispetto al passato: l’autocoscienza umana per la propria e l’altrui esistenza, per le domande che ci si può porre razionalmente e noumeisticamente sul significato del nostro essere e dell’esserci in questo Universo, non sono e non dovrebbero essere un presupposto di maggiore considerazione del nostro dolore e della nostra sofferenza rispetto a quella di tutti gli altri esseri viventi.
Abbiamo per millenni preso in considerazione l’ipotesi (divenuta per tanti una certezza, fideisticamente parlando…) di essere un anima in un corpo e che, quindi, alla prima spettasse un premio di eternità se in questa vita ci si fosse comportati cristianamente, seguendo i precetti biblici ed evangelici. Ma abbiamo, nello stesso tempo, continuato ad uccidere gli altri esseri viventi per il piacere del gioco, per quello del palato, sostenendo che era “naturale” il fatto che l’essere umano – che è un animale, un primate come le scimmie, un mammifero come i delfini – dominasse la natura.
I precetti religiosi hanno sostenuto lo specismo fino ad oggi. E fanno molta fatica a superarlo, visto che nelle cosiddette “sacre scritture” si fa spesso cenno ad un rapporto di superiorità tra uomo e animale, separando il primo dall'”animalità” che gli è propria e lo include e costruendo per lui, al pari di tanti altri culti e di sentieri del sapere e della conoscenza anche laica e a-religiosa, un viatico privilegiato soprattutto nel rapporto col dolore e con la sofferenza.
Siamo pronti a considerare il nostro soffrire sempre e comunque e a ricercare, mediante la scienza, il modo per lenirlo, per ingannare la morte e per prolungarci la vita, mentre questo riflesso condizionato, tipico del desiderio e della necessità quindi dell’autoconservazione, non scatta immediatamente se riguarda altri esseri viventi e senzienti. L’antropocentrismo a cui abbiamo tentato di piegare la natura è una forma di dolore che le abbiamo inflitto e che, ecologicamente parlando, si ritorce contro di noi rendendoci sempre meno ospitale la casa globale in cui abitiamo.
Emily Dickinson affermava che il volto dell’agonia è sincero e, per questo, le piaceva, perché esprimeva senza intercapedini di ipocrisia la vera natura dell’essere che provava quella tremenda sensazione. Agonizzare vuol dire permanere nel dolore e nella sofferenza, psichica ma soprattutto fisica, per un tempo molto lungo. Vale forse il quadrifarmaco epicureo, a mo’ di tenue consolazione: se il dolore è perdurante è lieve e sopportabile, se è breve ed intenso è ugualmente sopportabile. Così come la vita, la presenza o l’assenza del dio o, nel caso del politeismo ellenistico, gli dei.
Ma la sopportabilità, vista da vicino, sembra essa stessa una violenza: siamo costretti a subire. Per prima l’esistenza stessa di cui “possiamo solo dire niente” (CB), perché ogni affermazione è una sorta di vanità nostra, di classificazione del tutto fin nelle sue più piccole dimensioni e rappresentazioni. Il dolore, che fa parte del tutto, è dunque classificabile? Esiste una gradazione della sofferenza psichica e fisica? Scientificamente parlando sì. Ma introspettivamente ognuno fa l’esperienza a modo suo, condizionato dalle circostanze in cui si trova.
Ed a malattia simile non sempre corrisponde una simile esperienza di traversata nel mare magnum del dolore. Perché – come ribadisce Natoli – il danno è sì universale ma il senso no. Viene, come metafora imaginifica, quella egiziana del serpente che si morde la coda, proprio in quanto caratterizzazione di una ciclicità dell’esistenza in cui è compreso il principio e la fine segnato dal pianto dell’infante che nasce e dalla senescenza dell’uomo che si avvia al tramonto della morte.
Il dolore è, al pari della gioia, costituzionalmente vitale: non sempre è, infatti, un tormento. E’ un’avvisaglia, al pari della paura: un avvertimento. Qualcosa non va e il dolore ce lo dice apertamente, senza mezzi termini. Una nuova idea del dolore è pensabile soltanto in funzione lenitiva del disagio e della sofferenza stessa. Una nuova idea del dolore è anche una frontiera di una società che se ne occupi concretamente, senza diffonderlo gratuitamente oltre quello che già, di per sé, ci investe del tutto naturalmente.
MARCO SFERINI
28 aprile 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria, in foto in basso a sinistra James Hillman