La fragilità di una democrazia non è data esclusivamente dal cedimento della cortesia istituzionale davanti al perdurare di crisi endogene che sedimentano nel rapporto irrisolvibile tra pubblico e privato.
I fattori di logoramento dei princìpi di rispetto delle libertà fondamentali dell’essere umano e del cittadino provengono da consunzioni che si accumulano nel tempo, mentre la logica privatistica avanza dentro le istituzioni e riduce le equidistanze tra i poteri dello Stato, tentando di influenzarli reciprocamente e dare vita così ad instabilità che si risolvono (si fa per dire) in crisi ormai cicliche, nell’instabilità di governo e nella limitazione dell’espressione compiuta del ruolo del Parlamento.
Non è un caso che forze politiche liberiste, apertamente schierate con nomi di eccellenti rappresentanti europei del capitalismo continentale e dell’alta finanza, oggi siano in prima linea nel sostenere soluzioni della crisi di governo che guardino al ricorso tecnicistico, escludendo in un certo qual modo il fattore politico pienamente esprimibile: quello rappresentativo delle Camere e quello delegato nella funzione dell’esecutività delle leggi, optando per un ricambio che sia prima di tutto gradito ai mercati.
La difesa di Conte da parte di PD e M5S, se da un lato potrebbe stupire, visto che parliamo di due soggetti della partita in corso che rientrano perfettamente nella descrizione di formazioni politiche pienamente inserite nel contesto di accettazione delle regole economiche dominanti, dall’altro invece conferma prima di tutto il timore di essere scalzati dal ruolo di interpreti di quella conversione in riforme antisociali di esigenze liberiste che sono sempre più in affanno a causa del protrarsi della pandemia.
Non è un caso che Italia Viva sia tornata sulla scena, pur non avendo avuto alcuna risalita nel gradimento popolare, ed anzi avendo oggi accumulato un tasso di antipatia nei confronti del suo leader che può vantare un record assoluto: dall’estrema sinistra all’estrema destra passando pure per le vie traverse del centro. E’ probabile che oggi Renzi sia più apprezzato in Arabia Saudita che in patria. Tant’è, la crisi di governo è soltanto apparentemente priva di qualunque senso.
Si è scritto che prende le mosse da ragioni economiche che devono trovare una nuova sponda politica per essere tutelate anche sul piano formale, per poter gestire una acuta fase di crisi sociale che non sfoci in una sollevazione sociale che rivendichi nuovi fondamentali diritti dal posto di lavoro a quello della vita comune e giornaliera dentro e fuori le mura di casa. Ma si deve anche scrivere, in aggiunta, che le crisi attuale è possibile proprio per un cedimento strutturale della democrazia repubblicana.
Gli attacchi del privato nei confronti del bene pubblico, dell’interesse comune, sono una costante delle classi dominanti per mantenere intatti i loro privilegi fiscali, tutte le agevolazioni statali di cui godono e che, spesso, non sono sufficienti a impedire che il “rischio di impresa” sventolato come sciagura che si vorrebbe indipendente dalle scelte imprenditoriali: la mano invisibile del mercato sarà anche una gran regolatrice economica, ma non è così masochista.
In una democrazia consolidata non si dovrebbe temere il ricorso al voto, perché la prima e anche l’ultima parola spettano ai cittadini. Ma se le forze tanto di destra quanto di presuntuosa auto-attribuzione di sinistra, lavorano nel corso della legislatura per increspare l’ordine costituzionale, cercando un reciproco equilibrio nell’azione di governo che altrimenti crollerebbe al primo alito di vento.
Allora si rischia di andare alle elezioni con una legge elettorale priva di una connotazione egualitaria e rispondente alla sostanzialità del voto come diritto universale non distinguibile per efficacia a seconda della forza del partito scelto; e si rischia altresì di ritrovarsi con un Parlamento ulteriormente mortificato: numericamente, nella piena rappresentanza dei territori, e politicamente, con traduzioni della volontà popolare alterate da premi di maggioranza o altri nuovi arzigogoli messi all’opera per truccare ancora una volta il gioco e continuare nella decostruzione antidemocratica.
Per questo, a volte fanno amaramente sorridere le rimostranze di tanti democratici, che si reputano magari ancora eredi di una tradizione di sinistra che, a sua volta, si rifà ad oltre trent’anni fa, quando ebbe fine la storia del PCI, che in questi decenni hanno sostenuto le peggiori riforme incostituzionali, le più ferree leggi antisociali, contro il lavoro e contro persino la democrazia sindacale, e che, nonostante ciò, si ergono a paladini della difesa – meramente formale – di una Repubblica che hanno sconfessato nei fatti tante, troppe volte.
Le politiche di destra si combattono non sostituendosi alla destra con imbellettamenti esteriori di sinistra: mostrarsi progressisti sul piano dei diritti civili, aderendo al liberal-socialismo di stampo novecentesco, e sostenere la ristrutturazione capitalistica a partire dalla fine del craxismo, provando a rimpiazzarlo con un tentativi socialdemocratici falliti sotto i colpi dell’assalto imprenditoriale alla diligenza politica messo in pratica col berlusconismo, è risultata una contraddizione così evidente, così palese da dover ormai essere inequivocabile. Per chiunque.
Se il PD è il risultato ultimo di questa contraddizione, resta il problema insoluto dell’incapacità della sinistra di alternativa, anticapitalista, comunista, libertaria ed ecologista di ridiventare domanda di massa per una popolazione che invece sceglie come soluzione dei propri problemi immediati la risposta di destra, l’illusionismo antisociale dei sovranisti, il revanchismo anticulturale nazionalista e trepida per l’uomo dai poteri forti, l’unico, il solo al comando.
La damnatio della sinistra di alternativa oggi rimane purtroppo una giusta condanna, in questo quadro a tinte molto fosche, perché è il contrappasso per la colpa non risolta del non riuscire ad esprimere compiutamente il disagio dilagante, l’aumento della povertà che è l’indice di una espansione della diseguaglianza, della forbice classista che non si concretizza in nessuna lotta di classe. Quindi nemmeno di massa.
La crisi di governo, vista sotto queste macro lenti, è ben poca cosa rispetto ai movimenti economici mondiali e alle riconversioni politiche in atto: basterebbe soltanto guardare ai primi atti politici di Joe Biden per rendersi conto che stiamo discutendo quasi del nulla se ci riferiamo alla pochezza del dibattito politico italiano. E’ lo specchio della nazione: tasche vuote, teste piene di pregiudizi, di odio e di rancori.
Il fronte antidemocratico avanza da più lati e rischia di circondarci.
MARCO SFERINI
30 gennaio 2021
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