21 gennaio 1921 – 21 gennaio 2021. Sembrerebbe una data da calendario Maya della fine del mondo, oppure una profezia di Nostradamus, qualcosa comunque da affidare alla cabalistica. Invece, molto più semplicemente, laicamente e materialisticamente parlando, si tratta del centenario di nascita del Partito Comunista d’Italia (sezione italiana dell’Internazionale comunista) poi divenuto quell’acronimo che ancora in tanti ben ricordano nel simbolo disegnato da Renato Guttuso: PCI.
Per ricordare questo importante anniversario, abbiamo pensato di parlarne con un giornalista che, neanche a dirlo, è originario di Livorno, proprio la città in cui nacque il Partito Comunista Italiano e che è del secolo scorso solo per un breve lasso di tempo.
Matteo Pucciarelli, è nato 63 anni dopo la fondazione del PCI, ed era ancora un bambino quando il più grande partito comunista occidentale veniva sciolto dopo la “Svolta della Bolognina”, dopo i fatti del 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica e dell’intera schiera degli Stati satelliti del “socialismo reale”, eppure si è addentrato più volte nel mondo della sinistra, del comunismo e dei comunismi che hanno attraversato il Novecento. Oggi è un giornalista de “la Repubblica” con alle spalle e accanto a sé una storia editoriale di tutto rispetto.
Lo ha fatto scrivendo un interessantissimo libro che ha tracciato “una storia di Democrazia Proletaria” (“Gli ultimi mohicani”, edizioni Alegre, 2011) e proseguendo, insieme a Giacomo Russo Spena, con uno sguardo alla Grecia in lotta contro la Troika (“Tsipras chi? Il leader greco che vuole rifare l’Europa”, edizioni Alegre, 2014) per approdare in Spagna, all’avvento della novità politico-elettorale di una “sinistra oltre la sinistra” (“Podemos”, edizioni Alegre, 2014). Dell’italica politica si occupa nel 2012, analizzando l’ascesa del fenomeno pentastellato (“L’armata di Grillo. Radiografia del moVimento Cinque Stelle”, edizioni Alegre), mentre del 2016 è il focus su uno Stivale preda della febbre da sovranismo: “Anatomia di un populista. La vera storia di Matteo Salvini” per Feltrinelli.
Nel pandemico 2020 scrive con Sara Fabrizi, per le edizioni Typimedia, un nuovo libro, “Comunisti d’Italia. 100 patrioti rossi che hanno costruito la democrazia”. E proprio di questo, nello specifico vogliamo parlare con lui, festeggiando in un certo qual modo l’anniversario della nascita del PCI.
Il 21 gennaio 1921 viene rappresentato, in uno sceneggiato su Antonio Gramsci, di una Rai che allora – negli anni ‘70 – faceva cultura attraverso il cinema e quella che oggi si chiama “fiction”, come una giornata piovosa. I delegati della “frazione comunista” abbandonano la sala dove si tiene il Congresso del Partito Socialista Italiano: è la voce tonante di Umberto Terracini a smuoverli. Un giovane che oggi vedesse quelle immagini si domanderebbe forse: «Ma perché dai socialisti nascono i comunisti? E perché se ne vanno da quel congresso?». E’ una domanda che un po’ ripercorre la storia della sinistra in Italia e che ci riporta al tema “classico” delle scissioni. Ecco, Matteo, perché quella scissione avviene?
Ci sono più motivazioni, conta ovviamente molto il contesto storico. In Russia due anni prima c’era stata una rivoluzione che aveva fatto accadere l’impossibile: il socialismo aveva conquistato il potere. Questo aveva acuito la storica divisione tra riformisti e rivoluzionari all’interno del Partito socialista.
Per i riformisti il socialismo lo si realizzava passo dopo passo, conquista dopo conquista, e nei decenni precedenti al 1921 in effetti erano stati ottenuti dei miglioramenti per la vita della classe lavoratrice.
L’esempio russo invece aveva dimostrato la possibilità di arrivare al potere con rapidità, grazie all’organizzazione del partito e alla radicalizzazione delle lotte. I comunisti non erano più disposti ad accettare il gradualismo né il compromesso con i partiti “borghesi”, bisognava agire subito e puntare in alto.
E la nuova terra promessa del socialismo mondiale, appunto la Russia, in quella fase incoraggiava ovunque la scelta di rompere coi riformisti.
Antonio Gramsci è, senza ombra di dubbio e presunzione di smentita, colui che intuisce la deriva riformista, l’accettazione progressiva da parte del PSI delle “riforme di struttura”, del “compromesso” con la borghesia, della “sostenibilità” di un certo tipo di mercato capitalista che va “temperato”. Ho messo fra virgolette tutti concetti che si sono ripetuti nel corso del Novecento, soprattutto nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale e che, lo si voglia o meno, determinano passaggi importanti per il movimento dei lavoratori. Cosa rimane della lezione di Gramsci nelle sparute pattuglie del comunismo italiano di oggi e nell’”altra sinistra”, quella teorizzata da Bertinotti, quella che – per brevità e sintesi – chiamiamo “moderata”?
Di Gramsci sono rimasti numerosi saggi, articoli e altre riflessioni che sono complicati da leggere con gli occhi di oggi. Mi ha colpito molto una frase di Mark Fisher che è un po’ il sunto, anche triste, del suo libro Realismo capitalista: «Oggi ci è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo».
Noi viviamo esattamente questa realtà. Un modello di società e di economia immutabile, e se pure sbarcheremo su Marte anche in quel caso faremo affidamento sugli stessi meccanismi di relazioni tra gli uomini del capitalismo. Quando Gramsci scriveva invece tutto appariva possibile, i confini della lotta erano ben definiti e anche i bisogni materiali delle persone, i più basilari, fungevano da propulsore.
Oggi manca tutto questo, alla sinistra radicale e a quella moderata: la convinzione, al netto dei richiami ideali e ideologici, che il capitalismo sia davvero superabile.
Il comunismo, come “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, come “facilità che è difficile a farsi”, oltrepassa però i confini del secolo che stiamo celebrando qui: vive prima del 1921 italiano e vive anche in questo 2021 in gran parte del pianeta sotto forma di movimenti spontanei, di organizzazioni parlamentari ed extraparlamentari, di “partiti-Stato” in esperimenti consolidati di “alternative al capitalismo” come Cina, Cuba, Corea del Nord, Vietnam… Non vive il comunismo che piacerebbe a noi, quello della Comune di Parigi o quello del Biennio rosso o degli anni turbolenti “nati dal fracasso” (1968-69 e anni ‘70) in Italia. Quale comunismo è possibile per il nuovo millennio?
Non può esistere alcun comunismo o socialismo senza prima culture politiche forti che diano consapevolezza e senso di appartenenza alle persone. Il lavoro è frammentato in migliaia di postazioni singole e individuali, ma lo sfruttamento piccolo e grande rimane una realtà quotidiana per milioni di persone: ne sono però tutte coscienti?
O pensano che sia questa la normalità? E poi, riconoscono nell’altro, nel collega o nell’amico, una persona nelle stesse condizioni e quindi con gli stessi obiettivi da raggiungere attraverso il conflitto? Le disuguaglianze aumentano eppure è il consenso delle destre a crescere.
Questo accade perché manca proprio questa consapevolezza. Non ce l’hai se mancano gli strumenti politici per leggere la realtà e, soprattutto, se non sei grado di renderli parte integrante del senso comune.
Nel tuo libro si parla di “patrioti rossi”, si fa esplicito riferimento al contesto italiano e al legame che, ad un certo momento, si stabilì tra la lotta per l’emancipazione del proletariato e la lotta per l’indipendenza del Paese dalla monarchia, dal regime fascista e dall’oppressione di classe. Non si rischia di delineare così un ritratto troppo “nazionalista” del comunismo italiano e di sganciarlo dalla sua dimensione europea, dal “berlinguerismo” da un lato e dall’”internazionalismo” della “nuova sinistra” dall’altro?
Nel libro sono raccontate le esperienze internazionaliste di molti partigiani che andarono in Spagna a combattere il fascismo, ma anche di Vitaliano Ravagli in Vietnam e Gino Donè Paro a Cuba.
Questo per rimarcare che lo spirito internazionalista, ostile a ogni nazionalismo, è imprescindibile per ogni socialista e comunista. Però la scelta di utilizzare la parola “patrioti” è legata all’attualità di un dibattito politico che tende a sminuire, se non a denigrare, il ruolo dei comunisti nella storia d’Italia.
O di confinarli nel girone dantesco degli “opposti estremismi”. Aggiungo che oggi, proprio in ragione della convinzione che frontiere e barriere siano invenzioni umane che fanno comodo ai potenti, se sei di sinistra rischi di venir considerato un nemico del Paese nel quale vivi.
Si tratta di una narrazione falsa che va combattuta mettendo i fila i fatti: se oggi viviamo in un sistema democratico, con una scuola e una sanità pubbliche, se resiste una cultura di diritto del lavoro e di libertà individuali, è grazie alle lotte e all’esempio testardo di decine, centinaia di migliaia di comunisti italiani. Persone alle quali dobbiamo essere riconoscenti.
Grazie Matteo e ora andiamo a festeggiare i 100 anni di una grande storia…
MARCO SFERINI
21 gennaio 2021
foto: Wikipedia