Le cifre di Istat e Inps sulle retribuzioni sono spietate, anche se non ci colgono di sorpresa, essendo la questione salariale cosa antica nel nostro paese, così come il fenomeno dei working poor. Il 22% di lavoratrici e lavoratori guadagna meno di 9 euro lordi all’ora.
Di questi quasi un terzo si trovano nel Sud e nelle isole, mentre una percentuale tutt’altro che trascurabile, il 19%, svolge la propria attività nel Nord del paese. Secondo l’Inps la percentuale che sta al di sotto dei nove euro sale per le donne (26% rispetto al 21% degli uomini), tra gli under 35 (38%), nel settore dell’artigianato (52%, rispetto al 10% dell’industria e al 34% del terziario).
Nella memoria consegnata al Parlamento da Cgil, Cisl e Uil si insiste sul “ruolo salariale” di spettanza dei sindacati. Ma se la povertà sfonda nel mondo del lavoro, tale ruolo non è stato svolto esaurientemente. Non solo per responsabilità del sindacato. Quella del padronato è prevalente, avendo esercitato da anni una lotta di classe rovesciata.
Perciò ha sempre meno senso ora, se mai lo ha avuto in passato, rivendicare un primato della contrattazione sulla legge. Anche perché le due cose non devono essere necessariamente in contrapposizione. E quando questo avviene vuole dire che siamo di fronte a una desertificazione del diritto del lavoro, quale è avvenuta in questi anni.
D’altro canto è proprio l’articolo 36 della nostra Costituzione che fa rientrare “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità” del lavoro, e in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, nel campo dei diritti alla stessa stregua di quelli non economici. Pertanto non è sostenibile che il raggiungimento di un’equa retribuzione debba dipendere solo dal libero esercizio della contrattazione e dall’alternarsi dei rapporti di forza tra le classi. Un intervento legislativo che stabilisca un livello minimo al di sotto del quale né l’arbitrio padronale, e neppure una contrattazione embedded, possa fare scendere il salario è perfettamente coerente con il nostro impianto costituzionale.
Tanto più che la copertura contrattuale non è totale, malgrado gli oltre 700 contratti nazionali reperibili al Cnel, di cui 228 stipulati da Cgil, Cisl e Uil. Secondo i sindacati le quote di lavoratori scoperti dalla contrattazione salariale nazionale assommano al 10-15% della popolazione lavorativa. Secondo altri si arriva al 20%. Di suo l’Inps rileva che negli ultimi anni “la capacità regolativa del contratto collettivo nazionale è stata fortemente indebolita”. I sindacati confederali, dal canto loro, denunciano la “eccessiva (!) diffusione del lavoro irregolare” e di forme di sottoccupazione, favorite dalla presenza di false cooperative o di false partite Iva “che la recente riforma fiscale flat tax porterà a diffondersi”.
Un’equa retribuzione per tutti non può ottenersi solo estendendo la copertura dei contratti nazionali e tantomeno elevandone il numero, che invece sarebbe necessario ridurre all’essenziale per favorire la riunificazione nel mondo del lavoro. D’altro canto è stata proprio la Cgil a lanciare una riuscitissima raccolta di firme per una legge popolare su una nuova carta dei diritti. Né si può pensare che l’estensione erga omnes degli effetti contrattuali possa dipendere dal grado di rappresentatività dei sindacati firmatari e non invece dal voto liberamente espresso sul contratto da parte di tutti i lavoratori che ne sono coinvolti. Una nuova legge sulla rappresentanza sindacale è quindi sì necessaria, ma proprio a partire da questo principio su cui fondare un processo di ri-democratizzazione del sindacato.
Il già citato documento confederale afferma che “l’effettiva retribuzione oraria di un lavoratore coperto da Ccnl è ben superiore al semplice minimo tabellare”. L’argomentazione elude la domanda di cosa succede ai settori che non ne sono coperti. Ma, in ogni caso, nessuno esclude che la determinazione della quantità della retribuzione oraria per legge possa avvenire sulla base di un’analisi dei contratti esistenti. Lo stesso documento dice che “è possibile assumere i minimi tabellari dei Ccnl come salario minimo per legge”. Il che contraddice quindi un’opposizione di principio all’intervento legislativo, seppure fondato su una precedente contrattazione e applicato ai singoli contratti nazionali,
Ciò che non va al sindacato confederale è dunque “stabilire un’unica misura universale di salario minimo orario legale”. Peccato che proprio questa soluzione potrebbe favorire un importante passo in avanti verso un miglioramento generalizzato delle condizioni retributive, sia a livello nazionale che europeo. Allo stesso tempo non toglierebbe spazio ad una contrattazione nazionale e aziendale in senso migliorativo rispetto a quel minimo, orientandola allo stesso tempo in modo più incisivo sul controllo della prestazione lavorativa che certamente non si riduce alla sola misura della retribuzione.
ALFONSO GIANNI
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