Jean-Loup Amselle è un antropologo. Potrebbe stupire, quindi, che abbia scritto un libro il cui bersaglio polemico ha molto a che fare con il primato acquisito, fra le scienze sociali, dalla sua disciplina. Ultimamente, l’antropologia va di moda, molto più di filosofia e sociologia. La cultura, il suo oggetto analitico principe, ha acquisito un’assoluta centralità nel discorso e nel dibattito politico.

È su quel terreno che si sviluppano rivendicazioni e rimostranze, che si fissano linee di faglia lungo le quali si dispongono gli schieramenti in conflitto. Un po’ ovunque si parla di guerre culturali, mentre la lotta di classe sembra essere sparita dall’orizzonte, sia come principio analitico sia come criterio politico.

Ed è proprio su questo nodo che insiste A ciascuno il suo Marx. Le disavventure della dialettica (Meltemi, pp. 116, euro 12). Il testo, agile e brillante, può essere letto inizialmente come un romanzo di formazione che ricostruisce le vicende di un giovane militante e aspirante antropologo nella Francia degli anni Sessanta e Settanta, fra le iniziative che si agitano a sinistra del Partito comunista, l’influenza magnetica di Sartre, la ricerca di una propria prospettiva di ricerca all’interno di un campo in cui emergono figure come Claude Levi-Strauss, George Balandier, Maurice Godelier, Claude Meillassoux.

Il libro, tuttavia non è solo un’autobiografia intellettuale. Diversamente, il ritorno sulle vicende del passato è funzionale all’aggressione delle impasse politiche del presente avvertite da chi, come Amselle, continua a dichiararsi di estrema sinistra.

E qui entra in gioco Marx. La parte teoricamente centrale del testo, infatti, riguarda la marginalizzazione del contributo marxista alle scienze sociali. Marx, nel discorso di Amselle, significa non una scolastica da riproporre quanto storicizzazione e politicizzazione dei fenomeni analizzati, attenzione ai rapporti di produzione, alle strutture economiche e alle dinamiche conflittuali, opzione per una prospettiva «universalistica», intesa come rifiuto di considerare le singole società come mondi monadici retti da proprie logiche ineffabili.

In ambito antropologico, in senso del tutto opposto si muoverebbe la prospettiva di Lévi-Strauss, in quella che viene letta come un’oscillazione fra primitivismo e strutturalismo. La tendenza all’essenzialismo è individuata alle base anche di altre tendenze, che privilegerebbero l’analisi delle società considerate più remote e «altre», procedendo a isolarle, a destoricizzarle e a trasformare tratti, che possono essere contingenti, in caratteristiche ontologiche. E qui a cadere sotto la critica di Amselle sono i grandi nomi dell’antropologia passata e presente, da Pierre Clastres a Marshall Sahlins, da Philippe Descola a David Graeber.

Il discorso, però, non si muove solo nell’ambito di una disputa interna alla disciplina. Il fuoco polemico è di carattere politico. I toni di Amselle, a questo punto, si fanno caustici nel segnalare quella che a suo avviso è la deriva organicistica assunta da quella che continua a identificare come la propria area di riferimento.

Dal Chiapas al Rojava, ci si schiera, a suo parere acriticamente, a favore di determinati popoli e culture, visti come unità compatte, non attraversate da linee di frattura o contrapposizioni di classe e portatori in sé di immutabili valori improntati all’egualitarismo, al rispetto della natura e alla convivialità. Su un altro versante, Amselle segnala l’emergere di tendenze regressive lette in chiave di «rossobrunismo», soffermandosi in particolare sulle vicende francesi.

A ciascuno il suo Marx è un testo di polemica politica, che procede in maniera diretta e senza perifrasi. Si possono senza dubbio esprimere perplessità su una serie di giudizi tranchant, in particolare riguardanti le tendenze teoriche che avrebbero contribuito alla rimozione del marxismo dall’orizzonte del pensiero critico.

Se si può concordare sui rilievi circa il fondo antropologico conservatore della sociologia di Bourdieu, decisamente scentrata appare la caratterizzazione come «antimarxisti», fra gli altri, di Deleuze e Guattari, cui peraltro vengono attribuite prospettive teoriche (o retoriche) riscontrabili semmai in qualche loro epigono.

Al di là dei singoli argomenti, vale però la pena evidenziare un dato fondamentale. Amselle, anche quando esprime i giudizi più caustici nei confronti dei discorsi che circolano negli ambienti della sinistra radicale, non assume mai la prospettiva dell’osservatore esterno che si compiace nel rilevare limiti e contraddizioni altrui. Viceversa, il tono è sempre quello di chi continua a porsi il problema, nello sfascio del presente, della costruzione di percorsi politici che escano dalla dimensione della testimonianza per incidere sul reale.

MASSIMILIANO GUARESCHI

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria