Civili bruciati vivi, ospedali bombardati, strade di Gaza piene di cadaveri in decomposizione, sotto il cielo del Mediterraneo. Quanto accaduto ieri a Deir al-Balah, con le tende degli sfollati date alle fiamme dall’esercito israeliano, è l’ultimo episodio di come l’«unica democrazia del Medio Oriente» si difende. Ciò che è diventato sempre più evidente nell’ultimo anno è che rispondere alle atrocità che si stanno verificando in Palestina e nel Mediterraneo orientale implica una netta riconsiderazione dell’Occidente.
Tutti i termini di pretesa provenienza occidentale – libertà, diritti, democrazia, giustizia – sono chiaramente interrogati dalle ombre più oscure che hanno sempre accompagnato la modernità occidentale: capitalismo, colonialismo, genocidio e supremazia bianca. Rispondere alla Palestina significa, in ultima analisi, rispondere alla lotta storica, politica e culturale per la comprensione di queste ombre.
Il diritto internazionale è finito in pezzi ora che non serve più alle potenze che storicamente si presumeva lo incarnassero. L’Occidente si pone contro tutti gli altri sempre più spesso in forma nuda e cruda, senza scuse o coperture legali. Questa rinuncia all’autorità morale è a tal punto pubblica a livello globale da stare inaugurando un altro ordine planetario.
Coloro che sono stati consegnati alla morte, ai detriti e ai rifiuti dalla politica occidentale e dalla macchina da guerra israeliana – i 70 chili di carne nuda consegnati in sacchetti di plastica ai parenti di Gaza dopo l’ennesimo raid – infestano i linguaggi della legittimità, sia essa politica e giuridica o accademica e «neutrale».
Ora, nel profondo dell’abisso, solo altri possono fornire una luce. I palestinesi che persistono e resistono, sia a Gaza che in Cisgiordania e in tutta la diaspora (la crudele ironia di usare un termine un tempo esclusivamente associato alla storia ebraica), nella pletora di letteratura, poesia, teatro, cinema, musica e arti visive, indicano costantemente una delle strade.
Ma c’è anche uno spostamento dell’asse di potere in gioco che non è semplicemente registrato geopoliticamente nell’imminente ascesa dell’Asia orientale, nonostante i continui tentativi euro-americani di boicottaggio e sabotaggio economico. È in atto una trasformazione vitale del capitale simbolico. Il regime di diritto che si suppone leghi l’Occidente, stabilendo la sua autorità (e superiorità) morale, viene ora rivoltato contro se stesso.
Una piccola parte del mondo, la Palestina storica, occupata dall’Occidente (in particolare da Gran Bretagna e Francia) e poi colonizzata dagli ebrei europei, è diventata il laboratorio violento dell’attuale modernità globale. Lì gli apparati coloniali e razziali che assicurano la capitalizzazione del globo stanno mostrando appieno la loro brutalità e i limiti delle definizioni occidentali di umanità (sia per quanto riguarda il suo funzionamento sia per quanto riguarda chi è escluso come meno che umano).
Quella storia è stata ora violentemente aperta ad altre possibili narrazioni e i suoi linguaggi ad altri mondi e direzioni. Non va sottovalutata l’importanza che un’ex colonia europea, il Sudafrica, un tempo soggetto a un regime di apartheid sostenuto da Israele, lo abbia portato a rendere conto del proprio operato davanti alla Corte internazionale di Giustizia. Come ha affermato la prima ministra delle Barbados, Mia Mottley, alle Nazioni unite, nella sua immediata risposta agli sproloqui di Benyamin Netanyahu, la comunità globale ha bisogno di un reset.
È chiaramente giunto il momento di riformare le Nazioni unite proprio per insistere sul rispetto del diritto internazionale. Se l’Occidente, e Israele in particolare, continuano a ignorare i suoi verdetti e le sue risoluzioni, allora l’Onu deve essere riconfigurata per rispondere a esigenze globali e non solo occidentali, a esigenze democratiche e non solo coloniali. Ciò significherebbe abolire la possibilità di un veto da parte dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, invariabilmente guidati dal blocco statunitense.
Significherebbe anche definitivamente chiarire la posizione di un Israele che apre il fuoco sui caschi blu e non risponde mai alle sue decisioni e alle richieste dell’Onu. Esponendo la cinica disposizione del potere occidentale nella torre di vetro del centro di New York, Israele mina costantemente la legittimità dell’istituzione.
La forza giuridica e il ruolo dell’Onu nel diritto internazionale e nel mantenimento della pace richiedono una ridistribuzione dei poteri planetari che inevitabilmente pretende il rispetto della Carta delle Nazioni unite, il rilancio della Dichiarazione dei diritti dell’uomo (che costringerebbe l’attuale legislazione occidentale sulle migrazioni a riconoscere la propria disumanità) e il ripristino dell’orizzonte positivo del diritto internazionale.
Rifiutare questa costellazione emergente significa continuare a stringere una mappa politica statica che ignora la storia e la giustizia, cosicché Israele, incastrato nel suo etnonazionalismo omicida e perennemente in autodifesa preventiva, non sarà mai in grado di rispondere alla sfida coerente della Palestina e l’Occidente non uscirà mai dalla spirale mortale del suo passato e del suo presente coloniale.
IAIN CHAMBERS
foto: screenshot tv