Un referendum evitabile solo in una Repubblica federale spagnola

Mi sono domandato, mentre seguivo tutte le notizie in diretta da Barcellona, se il referendum travagliato sull’indipendenza catalana sarebbe stato possibile in un altro contesto: ad esempio una Spagna...
Sagrada Familia, Barcellona

Mi sono domandato, mentre seguivo tutte le notizie in diretta da Barcellona, se il referendum travagliato sull’indipendenza catalana sarebbe stato possibile in un altro contesto: ad esempio una Spagna repubblicana e federale. Praticamente, uno Stato che, uscito dall’epoca franchista, invece di avere come seguito del regime fascista di Francisco Franco, fosse tornato alla legittimità della forma repubblicana con un governo democratico.
Se è già difficile ragionare di storia umana sulla base di ipotesi, diventa ancora più complicato farlo se la storia la si pone a paragone con una realtà contingente, febbrile, dinamicamente impetuosa nel susseguirsi degli avvenimenti.
Probabilmente una Catalogna inserita in un contesto federale, con una autonomia regolamentata come ai tempi (ormai lontani, soprattutto politicamente) di Zapatero, non avrebbe sviluppato un movimento indipendentista così forte in questi ultimi tempi e sarebbe stata dentro un contesto di rispetto equilibrato tanto della nazionalità comune spagnola quanto di quella più specifica locale, regionale.
Invece, ancora una volta la limitazione delle libertà e il contenimento delle autonomie hanno generato l’effetto contrario rispetto a ciò che si prefiggevano: svuotando lo statuto della comunità catalana, il governo di Mariano Rajoy ha creato le condizioni perfette per mettere in contrapposizione Madrid e Barcellona.
Uno scontro che si è esacerbato fino a condurre al referendum svoltosi due giorni fa in un contesto difficilissimo, teso e, fin dal mattino del 1° ottobre, reso incandescente dalla svolta autoritaria rappresentata dalla calata della Guardia Civil sui seggi: vetri infranti, sequestri di urne elettorali, di sacchi di schede, manganellate e violenze degne del G8 di Genova.
Botte distribuite a piene mani, calci sferrati a cittadini pacifici, completamente disarmati, seduti in terra come forma di resistenza passiva. Donne anziane con la testa spaccata, proiettili di gomma sparati per le vie di Barcellona.
Il risultato di tutte queste violenze è stato il numero di oltre 800 feriti, di cui alcuni gravi, e per fortuna nessun morto.
Ma poteva accadere con una polizia la cui consegna era impedire il voto, impedire una libertà democratica, una partecipazione di massa ad un evento che potrà anche essere illegale per la Costituzione del Regno di Spagna, ma che diventa legale nel momento in cui viene riconosciuto da un intero popolo: oltre due milioni e duecentomila catalani hanno votato e hanno vinto.
Ha vinto la loro protesta pacifica, ghandiana: una resistenza capace di mostrare al mondo la differenza tra il pugno duro di Madrid, di un governo incapace di trattare politicamente su un tema così divisivo (è proprio il caso di dirlo) come la separazione di una parte del paese da sé stesso.
La Catalogna ha una storia antica quanto la Spagna intera. Medesima storia la hanno la Galizia e i Paesi Baschi. Ma queste comunità conservano una autonomia che nel tempo è divenuta quasi una indipendenza non apertamente riconosciuta: soprattutto la comunità di Euskadi è quella dove il potere centrale si limita alla riscossione di alcuni tributi e alla politica estera. Per il resto i baschi hanno un loro governo regionale e gestiscono la loro vita come se fossero veramente un paese differente rispetto alla Spagna.
Per la Catalogna la cosa è completamente differente: sarà forse perché si tratta della regione più ricca dell’intera penisola iberica e perché il suo prodotto interno lordo equivale grosso modo a quello di una storica nazione europea come il Portogallo? Sarà perché porta nelle casse dello Stato spagnolo 200 miliardi di euro all’anno?
Probabilmente è proprio per questo: la voglia di nazionalismo e di unità del governo Rajoy si mostra evidente quando il motore economico spagnolo vuole lasciare la macchina. E la macchina, si sa, senza motore è difficile che possa camminare…
Comunque sia, è ragionevole affermare che siamo innanzi alla più grave crisi della democrazia spagnola a far data dalla morte del fascista Franco e al passaggio dei poteri alla monarchia borbonica. Siamo davanti ad una crisi che rischia di divenire un problema per la governabilità della stessa Unione Europea che in queste ore ha colpevolmente taciuto senza condannare la violazione dei diritti umani e civili operata dagli uomini armati di Madrid.
Una crisi che investe anche l’istituto monarchico, storicamente molto odiato in Catalogna, oggi almeno tanto quanto lo è Mariano Rajoy e il suo governo.
La lezione che si apprende da tutto ciò riguarda anche i rapporti politici, ma di più concerne quelli sociali, tra comunità e popoli differenti: nessun muro contro muro servirà mai a nessuna causa. O si hanno le risorse umanamente rivoluzionarie per compiere un atto di rottura definitivo, dove si può anche contemplare una violenza ma di massa, oppure ci si dirige semplicemente sempre verso uno scontro impari: tra un governo centrale e un popolo che ha scelto, con grande saggezza, di agire ghandianamente, di fare resistenza passiva vincendo la sua prima lotta.
Oggi la Catalogna è chiamata allo sciopero generale: una prova ennesima di spostamento di pedine sullo scacchiere di una trattativa mai cominciata ma che, proprio per questo, va avanti con un fronteggiamento guardingo da entrambe le parti.

MARCO SFERINI

3 ottobre 2017

foto tratta da Pixabay

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