Per quale principio costituzionale (ed infatti di “costituzionale” in queste vicende c’è sempre molto poco, anzi quasi niente…) un grande albero (ormai nemmeno più frondoso come la Quercia con la “q” maiuscola di un tempo…) dovrebbe avere per sé tutta la foresta e non permettere all’erba di raggiungere qualche raggio del sole che, lo si voglia o meno, trapela sempre tra l’incrociarsi dei rami alti e ricchi di foglie?
Forse per il principio secondo cui l’erba rischia di crescere e di infastidire l’albero grande. Se diventa “cespuglio” è già una potenziale minaccia. Se poi, per chissà quale miracolo della natura della politica e dei movimenti sociali, il cespuglio fa intravedere in sé un piccolo arbusto, allora siamo alle grida strazianti e dolenti non della “folla che pan domandava” di fine ‘800 e inizio ‘900, ma a quelle di chi invoca il mito della “governabilità” che può essere tale, esistere e rafforzarsi solo se agiscono sulla scena i grandi. I titani, insomma.
Ma i titani politici di oggi sono nani su spalle di altri giganti che, ogni tanto, se li scrollano da addosso. E questi giganti sono il regime economico europeo e mondiale che non tollerano procuratori dei privilegi instabili, condizionabili dai “cespugli”.
E allora ecco la ricerca della corsa in solitudine: unici al comando di una grande pattuglia contro altre grandi pattuglie.
Pazienza se si sacrifica la rappresentanza vera del popolo italiano sul piano politico e se da decenni è stata falsata con leggi elettorali che hanno sostituito alla proporzionalità dei consensi l’attribuzione dei medesimi secondo schemi che facilitassero le coalizioni prima e i soggetti singoli poi nell’arrivare alla guida del governo.
Ma il dramma vero, senza allegri andanti, è la “filosofia” – per semplificare molto – che sta alla base della ricerca della legge elettorale migliore (qui servirebbero le virgolette, ma non apporle forse consente di cogliere meglio la distonia tra il vero significato dell’aggettivo e la sua traduzione nella quotidiana attività politica del Paese): l’adeguamento del principio di eguaglianza ed equipollenza del voto del singolo cittadino all’utilità di un gruppo o di una forza politica piuttosto che di un’altra.
Già da qui si può comprendere pienamente che qualunque legge elettorale scaturisca da un accordo parlamentare tra maggioranza e opposizione, essa sarà generata sotto l’auspicio di poter veder riconosciuta la premiabilità della propria rappresentanza piuttosto del volere dell’elettorato universale italiano.
La sovranità popolare, questa tanto invocata e tanto inapplicata e sconosciuta pietra angolare della Costituzione repubblicana e della Repubblica stessa, non nasce neppure sul piano della delega parlamentare se ci si discosta dalla proporzionalità assoluta del voto che dimostra tutta la fatica e la complicanza della ricerca di un dialogo tra le varie idee che si esprimono nei partiti e nei rispettivi gruppi parlamentari.
L’esercizio della politica, e segnatamente di quella istituzionale, è necessariamente complesso perché deve portare a sintesi ciò che, in teoria e anche in realtà, è agli antipodi.
Forse che nella cosiddetta “prima Repubblica” (che sarebbe più corretto definire “prima fase della Repubblica”) le litigiosità politiche erano maggiori di quelle che abbiamo riscontrato in questi ultimi trent’anni?
La dialettica anche aspra è un sale della democrazia, ma quest’ultima è sempre una forma della sovrastruttura statale e, pertanto, deve obbedire alle dinamiche dell’economia e del capitalismo.
Quindi, se la democrazia viene rappresentata da persone che non partono nemmeno lontanamente dal principio ideale di difesa del bene comune e, in particolare modo, del benessere degli strati più deboli e indigenti della popolazione, il risultato finale sarà la distorsione di ogni altro ambito statale, di rappresentanza, di gestione istituzionale sia nazionale sia locale.
Il “ritorno alla Repubblica” dovrebbe essere la parola d’ordine della sinistra di alternativa moderna: tanto di noi comuniste e comunisti quanto di chi si definisce in altro modo ma prova avversione per tutto ciò, per questa discesa a cascata di anomalie cercate e volute da un sistema economico che sovverte i princìpi fondamentali della formale eguaglianza tra i cittadini.
Da quella che oggi è invece una forma piuttosto oligarchica di Stato, nonostante si sia salvato il testo attuale della preziosissima Costituzione il 4 dicembre scorso con un sussulto popolare di indignazione mista di avversione per la controriforma, di contrarietà alle politiche governative, di opposizione ad uno generale stato di malessere sociale e civile che dilaga nel Paese, il “ritorno alla Repubblica” dovrebbe essere inteso “alla francese”: difendere, come fanno le compagne e i compagni di France Insoumise, a partire da Jean Luc Melenchon, insieme il carattere laico (quindi profondamente egualitario) delle istituzioni e, in ciò, identificare un neo-giacobinismo dal sapore antico, fatto non di giustizialismo (teoria revisionista e distorcente la storicità di un esempio politico che permise alla Francia di mostrare al mondo che una alternativa alle teste coronate esisteva; che una alternativa alla schiavitù esisteva; che il diritto di ribellarsi è un diritto umano) ma di riproposizione di politiche sociali che siano l’esatto opposto di quelle liberiste, di quelle attuali.
Dalla formulazione della legge elettorale discende tutto ciò, anche se indirettamente: discende prima di tutto la volontà di restituire la Repubblica a sé stessa, al suo popolo e viceversa.
Per farlo occorre costruire un movimento grande che si riappropri della Repubblica, dei suoi valori storici profondamente e assolutamente attuali e che continui a difendere al Costituzione come solco non cancellabile di un futuro che, altrimenti, sarà peggiore di quello che “sopravviviamo” oggi, giorno dopo giorno.
MARCO SFERINI
17 maggio 2017
foto tratta da Wikimedia Commons