Proprio ieri il Partido Popular spagnolo ha seppellito Rita Barberá, per ventiquattro anni onnipotente sindaco di Valencia che, implicata in una grave trama di corruzione e imputata di riciclaggio, è stata colpita da un infarto improvviso. E mentre Rajoy e tutto il PP lamentavano il «linciaggio» e la «condanna a morte» da parte delle «iene» (ossia i giudici, l’opposizione e i media), di una «donna generosa, una persona eccellente», quasi nelle stesse ore se n’è andato in silenzio qualcuno che di Rita Barberá era l’opposto, che ha rappresentato con straordinaria dignità un’altra Spagna e che, in un mondo in cui la memoria è ormai smaterializzata, ridotta a pura convenzione celebrativa, continuava a incarnarla con un vigore capace di fonderla al presente e di restituirle senso. Se n’è andato a novantasei anni, giovedì pomeriggio, Fernando Macarro Castillo, meglio noto come Marcos Ana, il nome con cui firmava i suoi versi: un militante comunista rimasto tenacemente tale, un poeta di valore, nonché il prigioniero politico rinchiuso più a lungo nelle carceri franchiste, dov’era entrato a diciannove anni per uscirne a quarantadue.
Figlio di poverissimi braccianti della zona di Salamanca, durante la guerra civile riuscì ad arruolarsi nell’esercito repubblicano, che lo rispedì a casa non appena scoperta la sua età (sedici anni), e poco dopo entrò nel Partito comunista, diventando l’istruttore politico della Gioventù dell’Ejercito del Centro, almeno finchè la Repubblica non venne sconfitta e gli italiani della Divisione Littorio lo fecero prigioniero. Accusato di omicidi che non aveva commesso, condannato a morte due volte e graziato perché minorenne, si ritrovò con sessant’anni di carcere da scontare, tra fame, torture e pestaggi. E fu in prigione che si trasformò in Marcos Ana, unendo il nome di suo padre, scomparso sotto le bombe, a quello della madre, morta subito dopo la seconda condanna del figlio. Con questo pseudonimo firmava i versi che aveva cominciato a scrivere di nascosto: li inviava all’esterno tramite i compagni rilasciati, che spesso li imparavano a memoria per non farsi trovare addosso quei pezzi di carta compromettenti.
In carcere, insieme ai compagni aveva creato una sorta di giornaletto clandestino, e con loro leggeva e discuteva libri quasi sempre proibiti (perfino il Don Chischiotte lo era), ottenuti fortunosamente. In quegli anni durissimi divenne, lui che a scuola c’era andato ben poco, un poeta amato da Alberti e da Neruda, che insieme ad Amnesty International si batterono per la sua liberazione, arrivata infine dopo ventitré anni. La libertà , però, Marcos dovette viverla in esilio fino alla morte di Franco, viaggiando da un paese all’altro, continuando a lavorare per il partito e a scrivere, aggiungendo ai suoi Poemas desde la carcel (pubblicati in Brasile nel 1960), altre raccolte di versi, e soprattutto uno splendido libro di memorie, Decidme cómo es un árbol. Memoria de la prisión y la vida (2007), di cui esiste anche una versione italiana a cura di Chiara de Luca (Crocetti 2009), e i cui diritti sono stati comprati da Almodovar, deciso a farne un film.
Si sa che, quando parlava della sua età , Marcos Ana usava ringiovanirsi, ma non per civetteria: sottraeva ai suoi anni quelli trascorsi in prigione. E giovane, tutto sommato, era davvero, come sanno i ragazzi spagnoli che l’hanno incontrato il quindici maggio 2011 alla Puerta del Sol, nei cortei, durante gli scioperi e le manifestazioni. È per quei ragazzi che Marcos ha scritto Vale la pena luchar, un piccolo libro del 2013 che non è un testamento, ma una trasmissione di esperienza e un atto di fiducia. Ed è soprattutto per loro che la porta della sua casa era sempre aperta: in prigione aveva scritto, tanti e tanti anni fa, che «se un giorno esco alla vita/ la mia casa non avrà chiavi».
FRANCESCA LAZZARATO
foto – screenshot tratta da You Tube