E’ da poco passata la mezzanotte quando, dopo una lunga attesa, giunge agli organi di stampa il comunicato ufficiale in grado di scatenare il più importante terremoto dell’ambiente pallonaro dal dopo guerra ad oggi.
Già nelle ore precedenti erano cominciate ad emergere indiscrezioni sull’annuncio da parte di 12 ricchi e blasonati club – sei inglesi, tre italiani e tre spagnoli – di voler creare, in tempi relativamente brevi, un nuovo torneo continentale gestito dagli stessi fondatori. Il formato della competizione, nei dettagli, prevede: 20 squadre partecipanti di cui 15 Club Fondatori (tra i quali Real Madrid, Barcellona, Juventus, Milan, Inter, Liverpool e Manchester United) e un meccanismo di qualificazione per altre 5 squadre, che verranno selezionate ogni anno in base ai risultati conseguiti nella stagione precedente; partite infrasettimanali con tutti i club partecipanti che continuano a competere nei loro rispettivi campionati nazionali.
Immediata, come prevedibile, la violenta reazione della UEFA, della FIFA e delle Federazioni e Leghe calcistiche di Italia, Spagna e Inghilterra, con minacce di radiazioni per chi aderirà al progetto. Perfino la politica si è scomodata per dire la sua, con le dichiarazioni congiunte di Macron e Johnson per condannare la scelta dei club “ribelli”, la condanna dell’Unione Europea; in Italia il governo e le forze politiche si sono schierate contro questo progetto e a favore della UEFA.
Fin qui la cronaca e la descrizione di una notizia che ha visto, per poche ore, prendere il sopravvento persino sulla vicenda Covid. Ma a ben guardare, il pessimo progetto di questa Superlega – peraltro già paventata negli ultimi anni da alcuni presidenti, Andrea Agnelli in primis – non è altro che una conseguenza, forse inevitabile, di un percorso lungo vent’anni e che in molti, soprattutto tra gli addetti ai lavori, hanno preferito ignorare.
Le modifiche delle competizioni europee alla fine degli anni ‘90 e l’arrivo di miliardari americani, russi e infine arabi agli inizi degli anni 2000, hanno inevitabilmente alterato un certo equilibrio che si era creato in Europa tra sport e bilanci economici. Tanto che nel 2010 l’allora presidente UEFA Michel Platini volle introdurre il Fair Play Finanziario, un controllo costante dei conti dei club in modo da evitare i grossi indebitamenti. Sebbene creato con un nobile scopo, il risultato di questo meccanismo è stato ampiamente fallimentare, in quanto si è creata una frattura fra 6-7 club che finanziariamente possono fare e comprare tutto quello che vogliono (evitando anche lo stesso FPF), mentre tutte le altre devono passare per controlli dei bilanci molto rigidi e costretti ad indebolire le proprie rose per porvi rimedio.
Inoltre, in un mondo dove conta soltanto il denaro e il profitto, con gli stipendi dei calciatori in continua crescita, la chiave di volta di tutto il sistema consiste nell’avere sempre maggiori ricavi: solo questi, tra sponsor milionari, biglietti cari per gli stadi, merchandising e partecipazione alla Champions League, possono garantire ai (pochi) club di sostenere costi sempre più grandi e debiti pesanti con gruppi finanziari e banche.
Non sorprende quindi, alla luce degli immensi danni creati dal Covid – tra le altre cose – anche al sistema calcio, che alcuni club ricchi e blasonati abbiano accettato di creare questa superlega, con l’intento di massimizzare sempre di più i ricavi e la volontà di creare un prodotto di intrattenimento che scimmiotta in qualche modo l’NBA statunitense.
Con la scusa di alzare la qualità del calcio ad ogni livello, pochi club vogliono creare un torneo di soli super ricchi, che grazie agli introiti da circa 10 miliardi di euro ogni anno garantiti dal gruppo JP Morgan, diventerebbero ancora più ricchi, alla faccia di tutti gli altri club medio-piccoli e della competizione sportiva. Un sistema sempre più neoliberista, dove club avidi puntano a proporre a ripetizioni partite tra grandi campioni, sostenendo di far felici i propri tifosi.
Esiste un però, un piccolo tassello che rischia di far andare in pezzi il giocattolo, sia nuovo che vecchio: il calcio, lo sport più popolare al mondo, nato nei ricchi college britannici e divenuto in pochi decenni lo sport delle masse popolari così come lo conosciamo oggi, ha una sua propria storia e filosofia, totalmente diverse dal prodotto spettacolare che hanno gli americani quando guardano le grandi partite dell’NBA. In Europa la richiesta di spettacolo è minore rispetto alla passione per la propria squadra del cuore. Il rischio di “americanizzare” il calcio europeo è quello di assuefare il tifoso con grandi partite che alla lunga risulterebbero ripetitive e noiose.
Ma se il sistema attuale, grazie alle pessime gestioni clienterali della UEFA e della FIFA, è totalmente fallimentare, l’idea di questa nuova superlega con posti assegnati a vita per il blasone e una piccola fetta di partecipazione derivante dal “resto del mondo” è uno schiaffo allo spirito stesso dello sport, o comunque a quel poco che ne rimane in un mondo con sempre meno valori.
Il calcio è innanzitutto sport, e attraverso questa competizione positiva l’individuo sceglie di seguire una determinata squadra, la quale affonda le sue radici nel contesto storico, culturale e soprattutto sociale del proprio paese. Se viene a mancare l’elemento sportivo, il calcio stesso perde la sua ragione d’essere Gli stessi tifosi perdono la loro essenza senza la passione per l’evento sportivo. Può un calcio solo per ricchi, sopperire alla mancanza crescente di valori sportivi e passionali (i tifosi)?
Con questa impostazione elitaria, in Italia non avremmo mai visto Maradona al Napoli, Zico all’Udinese, Batistuta alla Fiorentina e Crespo al Parma, tanto per fare alcuni nomi. Ma non avremmo nemmeno visto gli scudetti del Verona e della Sampdoria, il Genoa vincitore ad Anfield, lo coppa Italia del Vicenza e le vittorie di Lazio e Roma ormai venti anni fa. Perché, al di la di ogni retorica, se le grandi squadre sono coloro che trainano il sistema economico, è altrettanto vero che l’aspetto sportivo permette a sorpresa di sovvertire gli esiti già scontati, quando la piccola provinciale può battere il club più forte e vincente.
Non si può escludere che tutta questa folle vicenda si chiuda con un compromesso che, a suon di tante centinaia di milioni di euro, accontenti tutti. Al momento però si prospetta una guerra legale totale tra istituzioni europee e i 12-15 club che vorrebbero gestire tutto alla faccia della meritocrazia.
La necessità di riformare l’attuale sistema semi-elitario è assolutamente impellente, a cominciare da una più equa redistribuzione della ricchezza totale tra i vari club europei, un tetto rigidissimo agli stipendi dei professionisti e l’utilizzo di nuove forme di vivai che permettano ai giovani di emergere potendo esprimere il talento e l’improvvisazione, non solo la tattica. Esiste oggi, per gli effetti nefandi del Covid, una grande possibilità per creare un sistema calcistico veramente sostenibile, che riduca i costi e i debiti generali, e obblighi FIFA, UEFA e grandi club ad intraprendere una direzione più virtuosa. Solo in questo modo si potrà avere la competitività che oggi i grandi club vanno chiedendo, lasciano il calcio alla passione positiva delle persone.
Altrimenti lo sport più popolare al mondo verrà sottratto dai ricchi, e al di fuori dell’avidità di pochi avremo solo delle grandi ed evitabili macerie.
FABRIZIO FERRARO
20 aprile 2021
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