La Parigi “under attack”, il mondo occidentale e quello orientale, lo scontro di civiltà, superiorità e inferiorità, medioevo e modernità. Sono ambivalenze, opposte specularità che si rincorrono nei giudizi che in queste ore si sentono ovunque: ne sono pieni i dibattiti in televisione, le trasmissioni notturne alla radio e i siti Internet di mezzo mondo.
Tutti si interrogano sul ruolo del terrorismo, sulla sua matrice religiosa, sul collegamento internazionale che ha con l’autoproclamato califfato dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, tutti versano fiumi di parole, concetti, idee e preconcetti e pregiudizi.
Vorrei provare a scrivere ancora poche righe sulla vicenda parigina, cercando di allontanarmi da tutto questo e contestualizzando i fatti soltanto servendomi dei fatti stessi. Penso giovi di più anche ad altri tipi di analisi una fredda disamina di quanto è avvenuto.
Intanto sgombriamo il campo dal fenomeno immigratorio: i tre attentatori e stragisti erano francesi di origini algerina, nati e cresciuti nei sobborghi di una capitale che ha per cintura un sottoproletariato ampio, incontrollabile dalla “pace sociale” che il capitale vorrebbe imporle con la semplice repressione quotidiana.
Il frutto immaturo (ma purtroppo anche maturo…) della povertà, della misera e del degrado sociale sono anche (si badi: anche!) questi giovani che hanno appena 25, 30 anni al massimo e che inneggiano a cosa? A dio soltanto? Inneggiano ad una società diversa da quella in cui vivono. Odiano questo Occidente ricco e, per loro, blasfemo; odiano i suoi governi che vanno alla conquista della democrazia nel Medio Oriente pieno di sangue locale misto a sangue di invasori; odiano chi ridicolizza la religione e i simboli cui si legano per sopravvivere, per avere un punto di riferimento in una vita squallidamente resa tale dalle circostanze.
Sono dei rivoluzionari? Non in senso classista. Sono anzi dei reazionari, ma in senso lato sono purtroppo definibili anche come “rivoluzionari”, perché la loro intenzione è palesemente quella di rovesciare un ordine costituito.
Non è qui in discussione la bontà dei principi illuministici, la grande portata libertaria (e liberale) della Rivoluzione francese.
E’ in discussione un modello di società che non fa che alimentare istinti primordiali, che derubrica la dialettica dal modus di confronto tra le varie culture e che affronta come nemici coloro che non accettano la nostra democrazia, la democrazia borghese.
Certamente non è migliore la sharia! Se il punto di confronto è con la concezione ellenistica antica di democrazia, allora basta rileggersi Pericle per capire che indubbiamente la democrazia borghese dell’Occidente è notevolmente più vicina alle parole del grande ateniese che non la teocrazia islamista di certi stati.
Su questo non possono esservi dubbi. Come non possono esservi dubbi sul fatto che l’azione di quei tre giovani franco-algerini è un crimine indicibile, un crimine contro l’umanità prima ancora che un crimine contro la libertà di stampa.
Diciamo che è un crimine su più piani, che investe più livelli e che per questo è impossibile da liquidare con titoli insulsi come quello che fa oggi “Il Giornale” quando, con pari odio dei terroristi, questo sì speculare, apre in prima pagina a nove colonne con: “Finalmente, uccisi!”.
Chi semina vento raccoglie sempre tempesta e chi semina odio raccoglie odio. Non serve andare indietro nel tempo, fare l’esegesi del Vangelo per scoprire una semplice, scomoda ma grande verità: alla violenza si risponde non con le leggi speciali, la pena di morte, la repressione costante, ma con il cambiamento della società dalle sue basi, radicale, incontrovertibile.
E nel frattempo? Giusta domanda che mi autopongo, perché il cambiamento sociale non è proprio lì, dietro l’angolino di casa nostra e nemmeno a nei sobborghi o nel centro di Parigi (e lo si è visto…): nel frattempo occorre provare singolarmente e socialmente a cambiare già qualcosa. Ad esempio il punto di vista sui nostri simili, sui problemi che vivono quotidianamente insieme a noi.
Le ricette delle destre possono sembrare di facile applicazione: fermare l’immigrazione, espellere i “clandestini”, obbligare gli stranieri ad adeguarsi alle abitudini ed alle legislazioni (ma in quanto legislazioni non sono già, ipso facto, un obbligo per tutti?) autoctone, e via dicendo… Ma se venissero applicate creerebbero ancor più frapposizione e scontri. Perché il problema è la distribuzione della ricchezza sull’intero pianeta e il motivo per cui oggi esiste l’Isis è la spasmodica voglia di accaparramento di oleodotti e di pozzi di petrolio (quindi di dollari sonanti) da parte del superiore sistema di valori del mondo occidentale.
Tutto questo purtroppo si intreccia con contraddizioni culturali millenarie fra due modi di intendere la vita che sono difficilmente conciliabili: Occidente e Oriente, anzi, Occidente e mondo islamico non possono essere ridotti ad una dicotomia permanente. Se non altro perché gli uni hanno scambiato con gli altri nei secoli molti elementi di conduzione della vita: arte, scienza, cultura, filosofia, storia.
Guardate i vostri orologi e vi troverete spesso i numeri arabi. A volte anche quelli romani. A volte nessun numero. Eppure sono sempre orologi, servono a leggere l’ora. Forse se imparassimo dalla parzialità e dalla partigianeria dei fatti a capire le dinamiche del tempo potremmo avere una visione tendenzialmente imparziale e univoca del mondo in cui viviamo.
La povertà è vissuta da tutti i poveri: ma ciascuno la percepisce in modo differente anche a seconda del suo animo interiore, della sua coscienza. Ma soprattutto in virtù delle sue capacità economiche: del suo livello di povertà.
Così vale per la ricchezza, per ogni fenomeno che ci fa vivere, che ci rende attivi e dinamici e, per questo, pieni di contraddizioni.
Le vicende di questi giorni a Parigi hanno dimostrato che il terrorismo è appunto una dinamica che non colpisce secondo schemi definiti su archetipi di chissà quale dogmatismo. Nasce e cresce nei contesti più diversi: si alimenta tanto in Francia quanto in Siria e finisce per esplodere quando i bisogni delle persone sono compressi e resi una variabile dipendente da un destino impalpabile diretto dalle grandi concentrazioni di denaro che fluttuano nei titoli delle borse.
Lo scontro di civiltà esiste soltanto nel momento in cui una civiltà pensa di poter dominare sull’altra. Ed esiste maggiormente con tutta la sua incivile e criminale esasperazione quando un nucleo di persone, un popolo, una comunità più o meno vasta si sente minacciata, attaccata.
C’è chi teorizza che per vivere con un significato la propria vita serva avere un nemico. Invece serve soltanto avere un confronto per riconoscere nell’altro da noi quella diversità che è complemento reciproco.
Per battere il terrorismo bisogna prima di tutto battere dogmi, odii e pregiudizi. Ma senza una lotta contro la miseria, contro le guerre create per il dominio imperiale di larghe parti del pianeta, potremo stare per qualche tempo tranquilli, senza notizie di bombe esplose nelle metropolitane, di attentatori che si rifugiano in negozi ebraici o in tipografie disperse nella campagna francese, ma prima o poi tornerà sulle pagine dei giornali la grande notizia: attentato… sequestro… E poi l’epilogo: “Finalmente, uccisi!”.
MARCO SFERINI
10 gennaio 2015
foto tratta da Pixabay